Oggi Auguste Rodin compirebbe 172 anni. Il grande maestro della materia, uno dei più grandi scutlori della storia dell’arte, è nato infatti a Parigi il 12 novembre del 1840, per poi spegnersi nel 1917. Vista la ricorrenza (dataci anche da google oggi) di seguito incollo una breve biografia che ho “rubato” a un mio caro amico, il critico e storico dell’arte Flavio Arensi, che curò la mostra del 2010 a Legnano, Rodin le origini del genio. E poi bastano poche immagini ….
Rodin prima dell’Inferno. «Il genio non sta solamente nel creare un’opera, bensì nel creare se stesso [...] ». Si conclude con un’apertura poetica il testo di Aline Magnien che anticipa e indirizza in questo volume l’analisi dedicata al periodo formativo di Auguste Rodin, dall’ausilio alla bottega di Albert-Ernest Carrier-Belleuse fino alla progettazione della «Porta dell’inferno», con una panoramica inedita sulla pittura e sulla produzione decorativa, due argomenti pressoché sconosciuti al grande pubblico. Un ventennio che dal 1864 al 1884 (in verità si principia coi lavori accademici) non soltanto modifica il linguaggio del genio francese, ma segna inevitabilmente il futuro della scultura occidentale, declinandola verso approdi poi ripresi per tutto il XX secolo, e forse ancora validi. La «Porta» viene commissionata dallo stato francese nel 1880, quando Rodin, quarantenne, riscuote i primi consensi decisivi; il suo intero progetto diventa uno dei cardini del suo personale catalogo, un punto di approdo e una ripartenza, nonché la fucina di idee e forme per il futuro. Con essa lo scultore assembla il portato di tanti anni di sacrifici, un periodo di ricerca molto intenso, e graduale, attraverso cui perviene a una migliore comprensione della scultura antica, delle sue logiche, della sua pittoricità intima, e da qui trasduce in una nuova grammatica. Come in un diario annota i ricordi visivi o concettuali della sua professione e vicenda, riformula le tappe della crescita artistica, assomma, elabora, elimina i momenti salienti del suo studio.
Fondamentale è il soggiorno belga, del quale restano quasi sconosciuti i dipinti dedicati alla foresta di Soignes, caratterizzati da una particolare attenzione alla luce e da una pennellata veloce, in cui l’impasto del colore permane arioso, inerendo alla grande poetica di Jean-Baptiste Corot e Gustave Courbet (certi cieli ricordano i bianchi delle sue cascate o delle nuvole più fratte). La pittura di Rodin lascia presto il posto al disegno, una costante dell’autore e probabilmente un abecedario in cui ammassare gli appunti presi in ordine sparso quindi rimessi in gioco per modellare. Lo stretto rapporto intessuto con Carrier-Belleuse, per quanto altalenante, serve da ginnasio e gli permette di sopravvivere e condurre i propri esprimenti in parallelo alla produzione ordinaria. Le piccole sculture di gusto affinano la tecnica e gli consentono di afferrare la sensibilità dell’epoca, pur spostandosi pian piano dalla risacca stilistica settecentesca, ammiccante il classicismo, verso un confronto serrato con la statuaria antica. Tale percorso viene indicato chiaramente da due capisaldi come «L’uomo dal naso rotto» (1864) e «L’età del bronzo» (1875-1876): il primo pare un omaggio a qualche busto della Roma imperiale o, come spesso si afferma, al ritratto di Michelangelo Buonarroti eseguito da Daniele da Volterra (detto il Braghettone per aver coperto le pudenda dei nudi affrescati sulla volta della Cappella Sistina), il secondo, che avrebbe dovuto trattenere una lancia in pugno, diventa l’inno alla classicità. Sono estremi compiuti a distanza di un decennio e rivelano con quanto sforzo la scultura di Rodin cerchi in principio l’approvazione dei circoli artistici francesi, aggirandosi fra schemi consolidati, pur non rinunciando a controllare soluzioni personali o recepire quelle più audaci (si pensi alle riforme di Jean- Baptiste Carpeaux, persino alla sua pittura accostabile per atmosfera a quella del collega). Queste due sculture sono tuttavia più trattenute rispetto agli esiti successivi, ancora troppo contratte dalla necessità di stupire attraverso la perfezione della tecnica.
Un assillo che promuove l’accusa d’aver formato «L’età del bronzo» da un moulage, e che a lungo funge da freno alla piena e approdata libertà espressiva. Ancora nel 1885, a proposito dei personaggi della «Porta dell’inferno» Rodin afferma: «[...] per dimostrare che sapevo modellare dalla natura quanto gli altri, avevo deciso, ingenuamente, di eseguire sulla porta figure più piccole del naturale». Ingenuamente, appunto. Le tormentate vicende delle due opere sono note, così come i rifiuti dolorosi al Salon, i sostegni o i contrasti suscitati nel mondo accademico, e per quanto oggi entrambe sembrino scostarsi molto dai risultati più maturi, si intravede il germe di una necessità che sta per esplodere, un bisogno nuovo di leggere la natura. Nella cronologia di Rodin gli anni settanta debbono intendersi alla stregua di un periodo piuttosto attivo per la carriera: nel 1875 il busto marmoreo dell’«Uomo dal naso rotto» è finalmente accettato ed esposto al Salon parigino, nel 1877 il gesso de «L’età del bronzo» viene presentato a Bruxelles e poi a Parigi, l’anno successivo inizia a lavorare al «San Giovanni Battista» e del 1879 sono le commissioni per la manifattura di Sèvres e il concorso per il monumento «La Défense ». Cruciale risulta il 1876, quando Rodin intraprende il primo viaggio in Italia e attende allo studio di Michelangelo ricavando una lettura del passato attraverso lenti nuove. Il «San Giovani Battista» (1876) è dirompente. L’armonia non è più costruita su un progetto di minimi equilibri, ma di rigorosi disequilibri, di parti che dialogano fra loro scavando la forma con un’originalità diversa, spuria, eppure eloquente, in cui ogni porzione è modellata da sola, poi riunita, con una valutazione complessa della forma d’insieme, dove le parti non sono di grazia perfetta, ma di drammatica autenticità, che non significa assomigliare alla natura, ma creare con la natura (lo sa bene Giuseppe Penone). Il bozzetto in gesso dell’opera è ancora più intenso, parla alle nostre generazioni come fosse di oggi. Qualche mese fa un ragazzino di quasi cinque anni, davanti a un quadro del 1961 di Giuseppe Guerreschi in cui la scena barbara delle guerre palestinesi tinge per toni sordi e grigi, si è fermato chiedendo: «Ma qui cosa è successo?». Al di là dell’aneddoto sorprendente per l’età del protagonista, poche volte all’epoca di Rodin, e poche volte oggi, un manufatto artistico fa sorgere questa domanda con la disinvoltura dei bambini. «Cosa è successo» dovremmo chiedercelo di fronte al «Bozzetto di san Giovanni Battista» perché potrebbe riferirci della società mutilata di oggi, come del resto avvicinare la «Pietà Rondanini» fa scaturire il senso di frammentata inadeguatezza dell’uomo chiamato all’orrore della nostra epoca, eppure sono di secoli addietro. Rodin non è solo uno scultore; Rodin è un uomo che realizza un’esistenza, non produce una scultura ma v’immette la sua personale storia e insieme riesce a far identificare ancora oggi l’intera schiatta terrena con i suoi artefatti; l’intimità precipua del suo modellare risiede nel rendere il dettaglio di un sentimento un affare univoco benché di massa, fuori dal tempo e dei confini delle nazioni. Cos’è il grido del guerriero ne «La Défense» coi muscoli che si lanciano, se non uno dei piccoli figuranti della sua «Porta dell’inferno»? E insieme l’eruzione di un grido profondo, come un lamento fra i dannati: affatto diverso, asciutto, denso, sintetico, rispetto alla bocca spalancata de «La Marseillaise» del 1833-1836, di François Rude, che pure deve aver indicato la strada da seguire.
Le tante figure che nel corso della sua carriera Rodin tocca, dagli amorini greci a «Bellona» rinunciano sempre di più a essere la sublime copia del modello ideale, per entrare nel concreto del mondo. La «Donna accovacciata» per esempio è assorta in un gesto da toeletta segreta, ma non per voyeurismo piuttosto per far entrare la normalità dei giorni nell’opera d’arte. Ci sono elementi della «Porta» che da soli sintetizzano la caducità cui siamo sottoposti, ce ne sono invece che evocano con eleganza l’eros, lasciano intendere il piacere dell’incontro, dunque – d’improvviso – la disperazione, come fossero i gusti di un pasto completo e allettante ma con portate talvolta amare, dolci, altre ributtanti, metafora della vita di ognuno. Curioso è soffermarsi sui diversi sviluppi della figura di Ugolino della Gherardesca: nell’«Ugolino assiso» (1875 circa) il linguaggio antico, in particolare quello ammirato e leggendario del «Torso Belvedere» di Apollonio che tanto influenzò Michelangelo, basta a sostenere il peso dell’immagine scultorea, mentre con «Ugolino e i suoi figli» (1882, ) lo svolgimento narrativo si amplia, non cerca soltanto la posa assoluta, ma produce un moto esistenziale. Se confrontata con l’omonima realizzazione di Carpeaux del 1861, cui l’«Ugolino e i suoi figli» dimostra un debito importante, si può rilevare come nel primo caso la tragedia sia statica, raccolta in un unico blocco piramidale, simbolica, senza possibilità di appello alla interpretazione tragica principale, laddove in Rodin l’azione si dipana e i vuoti assumono valore psicologico quanto la posa dei personaggi, tutti a sottolineare lo stento, persino l’ambiguità della circostanza descritta da Dante nel verso «Poscia più che il dolor poté il digiuno», con la sua doppia chiave esplicativa: il conte ormai impazzito si ciba della progenie, oppure si arrende alla fame che obnubila le ultime forze, avvilite dalla sorte toccata ai figli. L’«Ugolino» di Rodin occupa la sezione bassa del battente di destra della «Porta», è cuore della disfatta, quella preannunciata da «L’uomo che cade» posizionato dalla stessa parte, in alto al centro; le due ante sono una débâcle consortile in cui gli spazi vuoti avvolgono e accolgono anche lo spettatore, come un’onda che ritira e aggetta verso l’esterno. I riflessi sul bronzo scuro paiono una sorta di mare profondo più che di vampate di fuoco, e tutto in questo oceano portato alla ribalta e poi nascosto diventa un recipiente saturo di possibilità e impossibilità umane. Di Flavio Arensi (Archimagazine).