Number X

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Dato per vero che l’arte è direttamente proporzionale alla storia, quella contemporanea ha un compito ancora più imperioso: si rifà direttamente a una storia che non ha ancora avuto il tempo di poter essere definita tale, digerita, priva della possibilità di prospettive sufficientemente lontane che permettano di gestirne le estremità, i termini e le fondamenta basilari. Assente di una conclusione, l’arte contemporanea. Possibile, invece, di più esiti. Number X è un compendio di risultati, e si struttura esattamente come un’esposizione o una raccolta di più conclusioni, diverse e allo stesso tempo simili, su un medesimo tema: omologazione e globalizzazione; perdita d’identità e soggiogamento di gusti e mode. Una piattaforma d’idee e concetti sotto forma di opere d’arte, che si alterano a vicenda confrontandosi sul medesimo campo. Il potere condizionante dell’artefatto si ripercuote su quello vicino e via di seguito, secondo una proficua quanto involontaria dinamica. Si è voluto vedere Number X come un dialogo aperto su temi che ci riguardano da molto vicino, sull’aspetto che il mondo stesso va assumendo e sulle sue probabili derive.

A gennaio 2013 Chie Art Gallery bandisce l’omonimo concorso. Il tema, pretesto per conchiudere di un minimo le possibilità degli artisti con la speranza di favorirne la ricerca, è molto esteso: rifletti sull’omologazione, gli si chiede. Quali sono i pericoli che la globalizzazione porta, da questo punto di vista, con sé? Le risposte sono tempestive, e ruotano per lo più intorno a uno stesso assioma: l’allargamento e la conseguente rottura immediata dei confini tra le diversità s’intreccia non solo al tessuto dell’ambiente in cui viviamo, ma punta esplicitamente all’evoluzione dell’individuo. Esito primo del “test”: gli artisti rivolgono fermamente la loro attenzione verso il singolo, il soggetto che subisce questi tempi vagamente oscuri di passaggio, l’uomo. È manifesto che, in Number X, uno dei risultati principali della messa in contatto degli artisti con il concetto ampio di omologazione è che quest’ultima diventa oggetto di ostracismo da parte degli stessi. L’arma contundente è l’opera d’arte. Ciò che viene rinnegato e allontanato è la poca tutela dell’innata originalità, tipica di ognuno: una costellazione eclettica di dipinti, scatti fotografici, sculture, bassorilievi, immagini grafiche, tessiture sorreggono questa posizione; opere diverse sia per tema che per aspetto. Si rimane quasi stupiti di fronte alla vastità degli approcci all’argomento suggerito, osservando come l’opera si espanda nello spazio come posizione autonoma e originale di ciascuno. Number X si imposta così come un dibattito plastico, una piattaforma in cui quadri, foto, sculture e installazioni dialogano apertamente tra loro senza alcuna previsione di scala, polemizzando costruttivamente su che cosa sia o meno l’omologazione, in quale grado sia necessario prenderne le distanze e quanto sia urgente allertarsi di fronte a un simile cambiamento paradigmatico della società. Una risposta multi-formale e multi-tematica allo stesso interrogativo, insomma. Come se fossero risultati di un sondaggio, emergono precisi sottotemi cui gli artisti guardano con rinnovata attenzione: in particolar modo il concetto quasi estinto di identità, l’azione rimbalzante dei media e i processi che smuovono le politiche sociali.

 

Il dissotterramento delle specifiche personalità e la preservazione incondizionata dell’identità sono il fondamento di diverse opere in Number X.  Si va al nucleo del problema, e di conseguenza tale identità si moltiplica nell’immediato, diventando più di una. Un’identità legata alla tradizione, originaria, una restituzione atavica a misura d’uomo: sono concepite in questo senso le camicie dei nativi indiani cui Monika Wolf (Essen, 1941) dedica un intero ciclo di dipinti, dove a una tela corrisponde un capo d’abbigliamento, sottendendo la strenua ricerca di realtà altamente caratteristiche. In mostra, Big Plume’s Shirt (2006). Visione folcloristica e sempre legata a un preciso lembo di territorio anche quella di Ivana Bukovac (Krusevac, 1985), i cui ritratti – per Number X propone Bride 6 (2012) - cosparsi di pizzi, merletti e ciondoli sottolineano come l’appartenenza radicale di ognuno a una specifica zona non debba essere annientata a causa di quei cambiamenti che interessano il globo terreste. Ci si ancora quindi con le dite al conforto della tradizione di una precisa area geografica, nel caso dell’artista la Serbia. Unico, forse, modo per eclissare il lato negativo della globalizzazione. Una forma di totalitarismo, la definiva Jean-Luc Godard. Un’azione di appiattimento. Vi sono anche dei casi in cui ci si rifà direttamente alla politica, integrando nell’opera dei fatti di cronaca realmente accaduti: in r.1. (rivoluzione schema) (2011) Maurizio Caltabiano (Catania, 1979) sostiene come, in merito alle manifestazioni e ai cortei di protesta, «l'appiattimento e l'omologazione della realtà rappresenti lo strumento che viene utilizzato per sminuire, smorzare, ridimensionare e controllare». L’azione dei media, qui riportati attraverso delle citazioni, ne è un singolare esempio. Grazia Lavia (Voghera, 1946) vi si riferisce apertamente, omaggiando in un certo senso televisione e cinema, mentori supremi dell’uomo postmoderno. Nel suo Visioni Fra(me)s (2010) sistema dei singoli fotogrammi, a suo avviso emblematici, dentro un’installazione che tende a esorcizzarne i contenuti. Ognuno si spinge fin dove preferisce, ognuno vede ciò che la propria storia gli indica di guardare. Non il solito discorso sulla negatività dei media perciò, ma una rara nota positiva. Occhi puntati sulla comunicazione pubblicitaria anche per Valentino Albini (Reggio Calabria, 1959): il suo affresco Ego (2008) riflette sul falso mito maschile suggerito ogni giorno dalle réclame, mettendo in relazione una delle tecniche più antiche con un aspetto di modernità che le è del tutto distante. Lo scorcio sceneggiato nella fotografia di Antonio Buttitta (Palermo, 1981) How Social Am I?  (2013) ci conduce perfettamente entro i termini di un’ora serale nella cornice di una comune giornata vissuta da qualcuno che ci somiglia molto, in una «realtà nevrotica in cui è facile sentirsi dissociati». C’è chi riflette sull’omologazione che diviene discriminazione, come Antonio Cella (Benevento, 1975): il suo fiore azzurro Blu (2013) spunta da un intrico di vermi dai bulbi oculari vetrati, una profezia positiva senza recriminazioni e accuse. Un cenno elegante e dalle dimensioni piuttosto ridotte, però sufficientemente perspicace. Giuliano Giuliani (Roma, 1969) preferisce l’autoreferenzialità, e in Alternative I’m (2013) cita se stesso differenziandosi seppur mimetizzandosi nel resto della società, il che è indicativo dell’impossibilità comunque di uno stacco integrale rispetto a ciò che ci circonda. A Clelia Caliari (Trento, 1970) «sarebbe insopportabile restare rinchiusa e morire senza aver volato», così come sembrano spiccare il volo le sue larve in vetro di murano colorato (TAZ – Temporary Autonomous Zone, 2013), che si organizzano l’un l’altra in un cerchio lontano e inaccessibile a chi il vetro colorato non lo possiede, quegli ordinari e noiosi dettagli aggettanti del quadro ricoperti di fibrosa lana candida. Matteo Giachetti (Velletri, 1980) è esattamente agli antipodi di questa visione, e lo dichiara tramite uno dei suoi Multilayers, Portrait of Punk (2013): qui un numero spropositato di immagini è deposto sulla tela in apparente disordine; una stratificazione di livelli che amplifica una connessione temporale, dice l’artista, tra orizzonti culturali diversi. Anche in questo caso ritorna il problema della particolare visione dell’osservatore, già sottolineata dall’installazione della Lavia. La scialuppa di salvataggio dell’identità privata sta solo nelle nostre mani, banalmente e in modo diretto, senza mediazioni, senza altri ostacoli che la nostra mente. Siamo abbastanza robusti da non permettere a nessuno di annebbiarla, e di contro annebbiarci? È chiaro a tutti che l’opinione omologata è il sonnifero delle menti.

 

Ivana Mazzei

 

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