Tre grandi stanze dalle grandi finestre velate da imponenti tendaggi neri di velluto. Tre ambienti dove apparentemente ciò che domina è il colore nero, che si sussegue in maniera ossessivamente ordinata su grandi tele. Nero in apparenza, da lontano, poiché, via via che lo spettatore si avvicina ai lavori di Matthew Girson, creando quell’intimità utile ad assorbirne i dettagli, si realizza che, tra le ricorrenti forme di strisce, blocchi quadrati e righe uniformi, i soggetti prendono vita e sono dei libri.
Il libro come soggetto e fonte di riflessione per l’artista americano che, riprendendo tematiche di studiosi come Adorno e Max Horkheimer, e sulle orme della riflessione benjaminiana sulla riproducibilità dell’opera d’arte e la sua aura, ricrea la libreria di famosi personaggi della storia e della filosofia. Libreria dalla cupa apparenza, perché, al primo livello di lettura, quello impattante, ciò che risalta è un nero omogeneo, o dalle poche sfumature sul verde, i grigi, o i rosa scuri. Ma, al secondo sguardo, quello ravvicinato, intimo e pensante, ciò che vediamo è un’altra ripetizione modulare: quella dei libri che, così come i quadrati di Ad Reinhardt e le ombre scure di Rembrandt – secondo il testo critico di Paul B. Jaskot (DePaul University)- rappresentano il simbolo estetico e storico per Girson all’interno di una location dalla storia importane.
Il Chicago Cultural Center è infatti la sede della prima Biblioteca pubblica di Chicago (1893 – quando con il World’s Columbian Exhibition furono ricostruiti alcuni palazzi della città) e dunque Girson ne riporta alla luce la storia, mescolandola con un altro tema bruciante per cultura e riflessione: il nazismo e, in particolare, gli episodi a Norimberga e Monaco dei libri andati al rogo. Tema trattato sottilmente attraverso i dipinti in mostra, e con un video in cui l’artista ha colto l’essenza – una costante fiamma e, molto debole, un discorso in lingua tedesca di sottofondo – del film di Leni Riefenstahl del 1935, riproducendola su tele di piccole dimensioni dove una serie di fiamme nere si susseguono sulla prima parete d’ingresso.
Una mostra complessa e densa. Di quella stessa densità degli strati di colore che Girson applica, con minuziosa pazienza, sulla tela. Un percorso ambiguo tra il bianco – delle pareti – e il nero “aesthetically pleasurable, conceptually dystopic, compellingly challenging” / “esteticamente piacevole, concettualmente distopico, convincentemente provocatorio” (cit. dal testo critico in mostra, Paul B. Jaskot).