Ieri il mio amico e collega Andrea Berneschi ha citato un pezzo molto interessante di un saggio altrettanto interessante, che ho letto qualche settimana fa, ma di cui non ho ancora parlato.
Ecco il passaggio in questione:
Non va dunque sottovalutata la portata dell’elaborazione collettiva di cui gli anime si sono fatti carico in quegli anni: chi li indaga a fondo e trascorre il suo tempo fra esplosioni a fungo, alieni fascisti, controllo dei corpi e delle menti, orfani, macerie, fame e radiazioni, non può non sentirsi sommerso e impregnato da una tristezza infinita e definitiva. (Jacopo Nacci, “Guida ai Super Robot – L’animazione giapponese dal 1972 al 1980“, Odoya, 2016)
Il libro è ottimo sotto molti punti di vista.
Non è una guida “nerd” (ce ne sono molte, in circolazione) ai cartoni animati vintage. Pur essendo ricco di informazioni sui robottoni degli anni ’70 e ’80, questo volume offre un’analisi storica e sociale, partendo dalla valenza che quei mecha assumevano, nel contesto di un paese che aveva perso la Seconda Guerra Mondiale, ma che al contempo viveva uno slancio economico e tecnologico mai visto prima.
L’aspetto più profondo delle opere (manga e anime) riguardanti i robot giganti è analizzato dal punto di vista psicologico dei suoi protagonisti, che erano generalmente dei ragazzi messi davanti a responsabilità, a sacrifici e a scelte molto più grandi della loro età e della loro indole.
Non solo: anche gli stessi mecha, pur essendo gli ultimi baluardi per difendere l’umanità da invasioni aliene o demoniache, non sono esenti da aspetti inquietanti, a partire da quelli estetici. Questo aspetto, lanciato dal papà del genere, il grande Go Nagai, sottolinea l’ambivalente rapporto dei giapponesi degli anni ’70, lanciati verso un “grande balzo tecnologico”, e al contempo memori degli orrori che la tecnologia può creare (Hiroshima e Nagasaki erano tragedie ancora fresche).
Citando il libro:
Per la cultura giapponese del Novecento, la questione tecnologica non è politicamente neutra: storicamente la tecnologia era legata all’immagine dell’Occidente, ed è il campo sul quale le bombe di Hiroshima e Nagasaki hanno decretato nel modo più terrificante la vittoria dell’Occidente, ma proprio per questo è anche un campo sul quale si vorrebbe dimostrare una raggiunta parità, se non una vera e propria superiorità. Insomma la tecnologia è, nell’immaginario giapponese, un territorio – se non il territorio – di relazione, contaminazione e competizione tra il Giappone e l’Occidente.
Come vedete, la carne al fuoco è tanta, ed è cucinata molto bene.
Il libro non si lascia andare a infantili amarcord o a disamine semplici e tardo-adolescenziali, bensì mantiene questi toni per tutte le 300 pagine, lasciandosi leggere con piacere e con grande interesse.
Lo ritengo un testo imprescindibile per chi, pur continuando ad amare anime e manga “robotici” del passato, cerca di esaminare gli aspetti che – ovviamente – ci sfuggivano a quei tempi, visto che eravamo ragazzini inconsapevoli del mondo in cui vivevamo.
Segnalarvi Guida ai super robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980 fa il paio con l’articolo pubblicato settimana scorsa, in cui difendo il valore della narrativa d’intrattenimento, sia che si tratti di film, di libri o di fumetti.
Questo volume pone anzi uno step in più al discorso, dimostrando in modo impeccabile (ossia coi fatti e con un’analisi critica fatta come Dio comanda) quanto l’intrattenimento può veicolare “messaggi” ed esaminare tematiche importanti, senza essere didascalico o demagogico.
Se vi interessa, lo trovate qui.
(Articolo di Alex Girola – Seguimi su Twitter)
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