Enzo Forese. Fumo dei fumi

di Ivan Quaroni

 

 

Tutte le cose che ora vedi saranno presto trasformate

dalla natura che tutto governa, che altre ne produrrà

 con la loro materia, e con la materia di queste via via

altre ancora, perché il mondo resti sempre giovane.

(Marco Aurelio, Pensieri, VII, 25)

 

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Della sua passione per l’antica poesia greca Enzo Forese non ha mai fatto mistero, in particolare, per i frammenti lirici dell’Antologia Palatina, in buona parte anonimi, dove ricorrono ossessivamente il motivo del tempus fugit, della bellezza e del vigore fisico che svaniscono e delle illusioni che si dissolvono come cenere al vento. Tutto ciò che è effimero, instabile e volatile è indicato, secondo tradizione, come vanitas vanitatis, espressione usata per tradurre, in origine, un verso dell’Ecclesiaste, “havel havelim”, per il quale Guido Ceronetti ha recentemente proposto la versione “fumo dei fumi”. Proprio il fumo, sostanza evanescente per eccellenza, è il pilastro sul quale poggiano i nuovi lavori di Forese, sospesi tra pittura, assemblaggio e collage. Il fumo “fumato” delle sigarette e delle pipe, ma anche quello “residuo” dei fiammiferi, dei cerini e degli svedesi, di cui non restano che i contenitori, le stecche, i pacchetti, gli astucci, le custodie, le scatolette. Su questi resti di packaging, simulacri di un piacere ormai spento, di un godimento estinto, l’artista allestisce il suo falò delle vanità, convertendo il monito sull’imminenza della fine in esortazione a cogliere i piaceri della vita. Sono lavori in cui risulta evidente che Forese ha compiuto una scelta tra due facce di una stessa medaglia, preferendo il gaudium vitae di Lorenzo il Magnifico al memento mori di Savonarola.

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Entrambi gli avvertimenti muovono, infatti, dal presentimento di un destino inevitabile, ma mentre nel primo prevale un’intenzione celebrativa, una lieta gratitudine, nel secondo domina il rifiuto per i piaceri effimeri, in vista di presunti benefici durevoli. Forese opta per il bicchiere mezzo pieno, perché quello mezzo vuoto non si può bere. E così, pur prendendo le mosse da un sentimento malinconico, egli riesce a costruire un universo felice e accogliente, un mondo di forme e colori in cui si avverte, palese, tutto l’amore per l’inafferrabile bellezza del creato. In questa nostalgia, assai diversa dall’umor nero degli alchimisti, non v’è traccia di acredine, né di rovello. Il rimpianto per le morte stagioni per la giovinezza che si fugge, è sublimato nella concezione di un’arte profonda e lieve ad un tempo.

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Così, come negli altri artisti cresciuti nell’humus toselliano, da Kazumasa Mizokami ad Antonio Sofianopulo, da Gabriele Turola a Paolo Truffa, da Lisa Ponti a Bonomo Faita, anche in Forese si avverte quella levità di tono, divenuta il segno distintivo della galleria. Una levità che, tuttavia, è bene non scambiare per leggerezza, poiché, com’è noto, la semplicità è sovente frutto di una saggia elaborazione della complessità. Cosa evidente soprattutto in queste nuove opere dell’artista, tributo ad una “dissipazione felice”, rappresentata dalle donne, dal fumo e dalla sensibile grazia dei colori. In trasparenti scatole di plexiglas, Forese racchiude una teoria di templi dedicati a conturbanti dee terrene, santuari effimeri innalzati su basamenti fragili, vestigia di una consumazione (quella di tabacco) che allude al dispendio di energie vitali, che sfumano, anch’esse, come le volute azzurrine di un sigaro.

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Forese edifica questi altari recuperando miniature di conturbanti, quanto discinte, damine parigine, di seducenti pin up giapponesi e di eroine dei fumetti e dei cartoon, come Betty Boo o Wonder Woman, dimostrando, così, di saper piegare gli emblemi della cultura pop globale alle proprie urgenze espressive, restando impermeabile all’influsso delle mode del tempo. Così, mentre si diffonde in Europa la mania americana e giapponese per vinyl toy, action figure e pupazzetti di plastica disegnati da artisti e designer di grido, sorprende che Forese si trovi, senza volerlo, perfettamente allineato allo zeitgeist contemporaneo. Proprio lui, che ha fabbricato con la pittura un universo introspettivo di paesaggi disabitati ed eterne primavere, di fiori fragranti e languide bagnanti, lui, che si è ispirato alla Poesia e alla Filosofia dell’età classica, gettando, di tanto in tanto, uno sguardo furtivo alle immagini grossolane della cultura di massa.

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In un certo senso, gli ultimi lavori dell’artista appartengono al genere delle vanitas, sebbene, rispetto all’ormai consunto immaginario delle nature morte, introducano un sentimento giocondo e festoso. Le maliziose eroine di Forese sono, infatti, perfette incarnazioni della joie de vivre, ma, attenzione, il loro valore è duplice, poiché se da un lato rappresentano la giovinezza e il piaceri della vita, dall’altro trasmettono un sentimento di nostalgico languore e pacato rimpianto. Forese accentua questa anomalia, tutta giocata sulla contraddizione tra forma e significato, quando dipinge sulle scatole di tabacco e i pacchetti di sigarette pattern geometrici dai colori vivaci, alcuni dei quali, in verità, sono riprese e citazioni di sue opere precedenti. La sensazione è che Forese abbia voluto estendere il linguaggio della sua pittura oltre i confini bidimensionali, includendo elementi che non sono estranei al suo modus operandi. È il caso dei pacchetti di sigarette, usati in passato come supporti per la costruzione di splendidi fiori circolari, ma anche delle pin up, già incluse in una precedente serie di piccole tele pop dedicate all’immaginario erotico degli autotrasportatori.

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Ora, sebbene l’artista ribadisca che il motore del suo operare è il sentimento malinconico, ciò che affiora in questi, come nei precedenti, lavori è invece un senso d’ineludibile serenità interiore, che sfocia in un moto di umana pietas. Qualità rare, queste, che si trovano unicamente in quei pittori solitari e senza tempo – come Salvo e Jan Knap – capaci di rappresentare la realtà senza ricalcarla mimeticamente, ma anzi deformandola e stravolgendola fino trasfigurarla in una dimensione spirituale alternativa. A questa tipologia di pittori, per i quali lo storico dell’arte francese Henri Focillon faceva appello ad una genealogia dell’unico, appartiene anche Enzo Forese, costruttore di mondi immaginifici, dove gemmano fiori sconosciuti.

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