Eric White. Visioni dal sedile posteriore

di Ivan Quaroni

Ci sono due cose che hanno profondamente influenzato la cultura pop americana, la passione per le automobili e il Cinema, e due sono i luoghi che hanno incarnato perfettamente il Sogno Americano: Detroit e Los Angeles. La prima è la capitale dell’industria automobilistica, la seconda è il quartier generale dell’industria dell’intrattenimento dove, ancora oggi, si produce la maggior parte dei film americani.

Nel 1968, anno di nascita di Eric White (ad Ann Arbor, Michigan), grazie alla presenza di aziende come General Motors, Chrysler, Dodge e Ford, la vicina Detroit era una fiorente città industriale, oltre che il simbolo di quella rivoluzione soul promossa dalla Motown, che regalò al mondo giganti della musica come Stevie Wonder, Marvin Gaye, Smokey Robinson e Michael Jackson.

In quegli stessi anni a Hollywood, mentre si continuavano a produrre film, Los Angeles e tutta la San Francisco Bay Area erano famosi anche per essere state il focolare di una subcultura giovanile, quella delle Hot Rod, che nel Secondo dopoguerra aveva infiammato l’immaginazione di migliaia di teenager, spingendoli a recuperare vecchie carcasse di automobili per costruire nuovi bolidi aerodinamici da lanciare a folle velocità lungo le piane desertificate della California.

Mentre a Detroit si producevano le auto in serie, in California nasceva la Custom Culture e si creavano modelli di auto fuori mercato, dalle forme imprevedibili e bizzarre. Artisti come Von Dutch e Ed “Big Daddy” Roth erano riusciti a trasformare la customizzazione, una pratica fino ad allora meccanica e artigianale, in una nuova forma d’arte, richiamando l’attenzione di intellettuali e scrittori come Tom Wolfe e di attori come Steve McQueen, che compresero, prima di altri, la portata del fenomeno.

L’arte di Eric White è, senza dubbio, figlia di queste due grandi rivoluzioni culturali perché contiene sia il fascino senza tempo per i divi in celluloide, sia il gusto, un po’ vintage, per le grandi auto con i sedili in vinile, che, per i ragazzi degli anni Cinquanta e Sessanta, rappresentarono non solo un mezzo di locomozione, ma anche uno strumento di emancipazione e di libertà.

Naturalmente, il Drive-in è il luogo in cui queste due passioni convergono, la metafora di uno stile di vita che la modernità ha spazzato via, trasformandolo in un ricordo di altri tempi, una sorta di memorabilia dell’età dell’oro, in equilibrio tra la spensieratezza di Happy Days e i racconti horror di Joe R. Landsale.

In verità, in questi nuovi, dettagliatissimi, dipinti di White, che proseguono e approfondiscono il discorso iniziato nella sua precedente mostra milanese, c’è qualcosa di più del semplice rimpianto per l’America Felix.

Dai sedili posteriori di un’auto col parabrezza puntato sul grande schermo di un Drive-in o davanti a un gigantesco tabellone pubblicitario, White getta sul mondo uno sguardo disincantato, che registra lo stridente contrasto tra il passato e il presente, tra un’epoca, quella dei favolosi Fifties, caratterizzata da grandi cambiamenti, ma tutto sommato ottimista, e un’era, quella attuale, che si avvia rapidamente (e tragicamente) verso il declino. La sua Detroit è ormai una città obsoleta e fatiscente e New York, la città in cui vive, è diventata il simbolo della disparità sociale, il campo di battaglia di una lotta che vede contrapporsi una maggioranza di giovani precari e di famiglie devastate dalla crisi e una minoranza assoluta di privilegiati finanzieri, sempre più facoltosi.

Se Eric White fosse uno scrittore, pubblicherebbe un libro torbido e affascinante sulla fine del sogno americano, sulla scia del celebre Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon. Ma per fortuna, a questo hanno già pensato Tom Wolfe e Bret Easton Ellis.

White, invece, costruisce immagini misteriose ed enigmatiche quanto una pellicola di David Lynch, condensando nell’angusto e claustrofobico spazio di un abitacolo narrazioni incerte e piccole trame noir dall’esito imprevedibile. Nelle tele, come nei disegni, White fotografa personaggi dai volti noti, attori o attrici colti in un momento di silenziosa attesa, immersi in un’atmosfera di dilatata sospensione più simile a un effetto rallenty che a un fermo immagine. Si ha, infatti, l’impressione che White riesca cogliere un momento apicale della loro esistenza e a fotografare l’istante che precede l’azione, quell’impalpabile lasso di tempo che tramuta i pensieri in decisioni.

Nonostante la sua sia una pittura di grande impatto ottico, l’espressione più pura della Delizia Retinica teorizzata da Robert Williams, forse l’elemento più distintivo dell’estetica Pop Surrealista, White non rinuncia mai al piacere della narrazione, cercando di interpretare la realtà contemporanea attraverso il filtro dell’immaginario cinematografico, un linguaggio che il pubblico americano conosce e comprende forse più di ogni altro.

Si è detto più volte che lo stile di Eric White è tanto dettagliato e verosimile da suggerire un paragone con gli artisti fotorealisti o iperrealisti. Io ho, piuttosto, la sensazione che le sue qualità tecniche siano poste al servizio del racconto e che la realtà da lui rappresentata sia lo specchio della condizione interiore dei suoi personaggi, più che il risultato di una riproduzione mimetica. Prova ne sono i ripetuti effetti di polarizzazione delle immagini, le replicazioni di figure e una certa tendenza alla deformazione di gusto tipicamente psichedelico.

White usa il realismo e l’esattezza ottica per descrivere qualcosa di altrimenti inafferrabile, come le emozioni e gli stati d’animo dei suoi soggetti, immersi, come quelli di Edward Hopper, in un’atmosfera di silenzio quasi metafisico. A essere eloquenti, nei suoi dipinti sono i paesaggi e gli interni d’automobile, i tramonti infuocati e le sequenze filmiche, i titoli di testa e quelli di coda, i messaggi pubblicitari e le copertine di libri e riviste. Anche perché spesso i suoi personaggi volgono le spalle all’osservatore, essendo essi stessi spettatori di qualcos’altro: un film (Down in front, Davanti e Down Reckoning), un tabellone pubblicitario (No Other Dream), uno spettacolare crepuscolo alla Via col vento (Coming Soon).

In verità, White evidenzia, attraverso i suoi personaggi, la condizione di passività dell’uomo contemporaneo, sempre più assuefatto dai media e incapace di distinguere tra fiction e realtà. La sua è, in un certo senso, una pittura ingannevole, capace di gratificare lo sguardo dello spettatore e di insinuare, allo stesso tempo, dubbi e perplessità sulla natura veridica della realtà.

La distinzione tra verità e finzione, tra autenticità e falsificazione, è anche il tema di 1/3-Scale Retrospective, un’installazione composta di copie in miniatura dei lavori precedenti dell’artista, fatti eseguire da copisti cinesi. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un’autocelebrazione, una sorta di prematuro “Best of “ dell’artista è, invece, un’ironica riflessione sull’autocompiacimento degli artisti contemporanei e, insieme, una feroce critica della pittura nell’epoca della sua massima riproducibilità tecnica.

Esternalizzando la riproduzione di alcune sue opere, White dimostra che è possibile falsificare facilmente un quadro ricorrendo a semplici espedienti. Le miniature di 1/3-Scale Retrospective sono, infatti, stampe su tela ritoccate a mano, qualcosa di completamente diverso dalle tradizionali copie artigianali. Ci sono perfino artisti, oggi, che usano questo espediente – senza peraltro dichiararlo – al solo scopo di occultare le proprie carenze tecniche.

1/3-Scale Retrospective è, quindi, come si diceva una volta, “un’opera di denuncia”, un moto di indignazione verso i trucchi e le sofisticazioni di certa arte contemporanea e, al contempo, un accorato elogio dell’autenticità. In poche parole, l’atto d’amore di un artista verso la pittura.

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Info:

Eric White – Down in Front
25 September – 8 November 2014
Antonio Colombo
Via Solferino 44
Milano 20121

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