il SALE della TERRA //// Wim WENDERS racconta SALGADO

Wim Wenders  e Salgado  sale della terra pino farinotti mymovies labrouge

Il sale della terra racconta la vita e l’arte di Sebastião Salgado, il fotografo più popolare del mondo. Premessa su Wenders. Parto da un’affermazione azzardata, ma molto ragionata. Non credo che nell’era contemporanea ci sia un artista – ci metto cinema letteratura, arti figurative, ci metto tutte le discipline- come lui. È tedesco ma ha una magnifica vocazione completa. Unisce la sua cultura a quella latina.  Il suo filo culturale aveva dunque sorpassato la stagione del regime ma certo aveva assunto i movimenti tedeschi fino al 1933, ai quali guardava il mondo: a cominciare dalla rivoluzione, artistica, di Weimar, che aveva cambiato, evoluto i codici dell’arte figurativa, del cinema del teatro, di tutto. Bauhaus, Espressionismo. Poi c’è la sua ricerca febbrile e scrupolosa, ricerca di tutto. Sopra ho scritto “latino”: è persino riduttivo.

Nel 1994 con Al di là delle nuvole aveva collaborato con Antonioni, per un contatto con quello che era stato un cinema italiano universale. Dello stesso anno è l’inno a Lisbona, dove scovava in una stanza il fado-folk dei Madredeus. Nel 1999 aveva cantato Cuba in Buena Vista Social club, ripristinando le forme musicali inibite dalla rivoluzione di Castro. Ma c’è anche l’Oriente: nel 1985 Wenders aveva firmato Tokyo Ga, un documentario sulla città e sul grande regista Yasujiro Ozu, che dal 1927 al 1962 raccontò il Giappone, e la sua culturale, complessa metamorfosi. E poi la fase americana, quasi naturale e automatica nei cineasti internazionali. Wenders ha poi trovato un degno compagno autoctono, Scorsese, che ha prodotto con lui alcuni documentari sul blues, fra questi L’anima di un uomo, inno alla musica “radicale” americana. E poi due titoli classici, come Paris, Texas e The Million Dollar Hotel.

Salgado è il testimone più efficace, diretto, impietoso, dei dolori del mondo. Scatta fotografie. La Sierra pelada, nello stato del Parà, in Brasile. Decine di migliaia di cercatori d’oro schiacciati in una buca profonda, si muovono come formiche l’una sull’altra, un vero girone dell’inferno fisico, non metaforico. E poi il deserto del Sahel, dove non c’è acqua, e la sofferenza è quasi sempre mortale. E poi il genocidio del Ruanda, migliaia di esseri umani sterminati col machete. Le migrazioni infinite di popoli che non hanno niente, in fuga dalla morte, verso territori che non esistono. E forse arriveranno a un campo profughi che è peggio della fuga. Le stragi etniche in Bosnia, una terra al centro dell’Europa, la civile Europa del novecento. La memoria di chi vede quelle immagini trattiene soprattutto quelle dei bambini. Vedi solo occhi e ossa. E sai che quando guarderai quelle fotografie, quei bambini saranno morti. C’è gente al mondo che guadagna un milione all’ora e gente che non ha un cucchiaio d’acqua zuccherata in tutto il giorno. L’inferno dei pozzi incendiati da Saddam nel Kuwait. E ancora gli scatti che esplorano le foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea e attraversano i ghiacciai dell’Antartide.

Il film è co-firmato da da Juliano Ribeiro, figlio di Sebastião. Salgado ha assunto tutto ciò che ha visto pagando un prezzo alto di sofferenza e di salute. Adesso sta bene. L’ultima parte del film racconta il suo approdo finale: torna là dove è stato assente per tanto tempo. Sebastião nacque ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, Brasile. Era una valle rigogliosa, foreste e corsi d’acqua, poi è diventata deserto. Ma poi Sebastião, con sua moglie Lélia, compagna di una vita, è tornato in quel deserto, ha coltivato, ha piantato milioni di alberi e sono riemersi anche i corsi d’acqua. “Qui sono nato ed è qui che morirò, il ciclo sarà chiuso”.

L’immensa energia di Salgado, la sua passione per il dolore e per la divulgazione del dolore, e naturalmente il suo talento, hanno sedotto Wenders. E questo, a tutti noi, dovrebbe dire qualcosa: Wenders, l’artista assoluto, si è messo al servizio della missione del brasiliano. Il cinema, movimento, ha rilanciato le immagini ferme, del resto già dinamiche in proprio. Penso all’umiltà del tedesco, capace di porsi defilato rispetto a talenti e incanti meritevoli della sua attenzione e della sua azione. Come aveva fatto con Pina Bausch. Per quel film gli era stata assegnata una laurea honoris causa in architettura. “Per aver salvato il senso dei luoghi, recuperata la capacità di immergersi nel territorio ancor prima di disegnare un edificio”. Immenso artista completo, appunto.
Pino Farinotti (Mymovies.it, 2 novembre)

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