di Ivan Quaroni
Holger Meier, meglio conosciuto come Kinki Texas, è prima di ogni cosa un pittore dotato di un incredibile istinto per il segno e per il colore. È un artista veloce, irruento, completamente irriflessivo quando si tratta di distribuire i pesi e gli ingombri sulla superficie della tela e del foglio di carta, ma proprio per questo i suoi lavori possiedono una sorta di primitiva bellezza, un vigore indomito, che è la conseguenza – s’intuisce – di un’eccedenza energetica, di una sovrabbondanza che è, insieme, benedetta e pericolosa. Benedetta, perché tutte le cose sane e importanti per la vita e l’evoluzione degli uomini nascono da uno stato d’incontinenza creativa, da una generosa disponibilità di forze. Pericolosa, perché la sovrabbondanza può tradursi presto in eccesso e in esagerazione. Il parossismo è certamente una delle caratteristiche dell’arte di Kinki Texas, il quale tende ad acutizzare alcune intuizioni estetiche, frequentando territori visivi estremi, dove prendono corpo terrificanti epifanie e mostruose ibridazioni psichiche.
Quello che l’artista di Brema ha chiamato “Kinki Texas Space” è, nello specifico, la proiezione di un immaginario in cui si agitano pulsioni e istinti contrapposti, una zona d’ombra tra la psiche e l’iride, tra la verità storica e oggettiva e la realtà ambigua dell’inconscio. Simile a un reparto di ostetricia aliena, dove vengono alla luce mostri bicefali e centauri alati, crociati mutanti e cowboy cingolati, il “Kinki Texas Space” è soprattutto un laboratorio di proliferazioni immaginifiche, un campo di spavalde sperimentazioni, ma anche un teatro in cui vengono inscenati scontri a fuoco e duelli all’ultimo sangue, violenti torture e sadici giochi di dominazione. Kinki Texas rappresenta spesso un mondo cruento, fondato sul conflitto, ma ciononostante estremamente vitale e non privo di risvolti divertenti e ironici.
La violenza, il sesso, l’amore, la morte, il tradimento, la gloria, l’ascesa e la caduta sono ingredienti basilari di ogni storia degna di essere raccontata. A ben vedere cosa sarebbero la Bibbia, l’Odissea e la Divina Commedia senza la violenza? Senza il matrimonio tra Eros e Thanatos sarebbero mai nati la Tragedia Greca e il teatro di Shakespeare, il cinema di Stanley Kubrik e Oliver Stone o i fumetti di Frank Miller e Alan Moore? “La violenza fa parte di questo mondo”, ha affermato una volta Quentin Tarantino, “e io sono attratto dall’irrompere della violenza nella vita reale, che non riguarda tizi che ne calano altri dall’alto di elicotteri su treni a tutta velocità o terroristi che fanno un dirottamento o roba simile. La violenza della vita reale è così: ti trovi in un ristorante, un uomo e sua moglie stanno litigando e all’improvviso l’uomo si infuria con lei, prende una forchetta e gliela pianta in faccia. È proprio folle e fumettistico, ma comunque succede: ecco come la vera violenza irrompe irrefrenabile e lacerante all’orizzonte della tua vita quotidiana. Sono interessato all’atto, all’esplosione e alla sua conseguenza”[1].
L’immaginario di Kinki Texas è inequivocabilmente violento. Non si può addolcire la pillola, la brutalità è alla base dell’epos ed è per questo che nelle nuove tele dell’artista tedesco compaiono quasi esclusivamente figure di combattenti e di cavalieri. Ci sono le tradizionali immagini di cowboy mutanti e cyber-pistoleri di Maggot cowboys e, per la prima volta, quelle degli indiani Sioux di Oglala Zoo, che completano la fitta rete di riferimenti alla cultura americana, alla quale, peraltro, l’artista deve il nom de plume di Kinki Texas. Ma, soprattutto, c’è l’anima marziale e spirituale della vecchia Europa, quella che respira nel petto corazzato dei cavalieri templari e dei guerrieri teutonici. In tal senso, i cenni alle vicende di Baldovino IV, detto il Re Lebbroso (Lepreus de Jerusalem), che governò Gerusalemme dal 1174 alla morte, avvenuta nel 1185, oppure le suggestioni epiche del Parzival di Wolfram Von Eschenbach o quelle legate ai cavalieri dell’Ordine Teutonico[2], sono tasselli che contribuiscono a completare il racconto di un’identità storica e culturale conflittuale.
Tuttavia, non bisogna dimenticare che quello descritto da Kinki Texas è un universo in cui la realtà è spesso sovvertita, dove le regole sono capovolte, deliberatamente ignorate, bistrattate, trasgredite allo scopo di liberare le energie primarie della visione e dunque di far ruggire il cuore selvaggio del pop, quello vero, antagonista e irregolare che si agita nella sua pittura. Lo spirito con cui l’artista di Brema evoca la Storia è del tutto diverso da quello filologicamente rigoroso di Anselm Kiefer.
Per Kinki Texas il cavaliere teutonico e il cowboy si equivalgono. La sua cultura, dal punto di vista iconografico, è ibrida e onnivora, un riflesso incondizionato di quella post-modernità liquida, che s’identifica con l’ascesa di un sapere orizzontale e post-gerarchico, incline a mescolare l’alto con il basso, il sacro con il profano, senza soluzione di continuità. Non si tratta di uno smarrimento della capacità di orientamento culturale, ma di una nuova attitudine cognitiva, provocata da quella rivoluzione antropologica che è stata l’introduzione delle tecnologie informatiche e digitali nella vita quotidiana degli individui. Nell’opera di Kinki Texas è facile individuare, insieme all’eredità visionaria dell’espressionismo, del surrealismo e della pop art, anche quella delle moderne tecniche di animazione tridimensionale e di montaggio audio e video.
Nei suoi video, in particolar modo nel più recente, realizzato in modo da riprodurre la visione stereoscopica dell’occhio umano mediante l’uso di occhialini 3D, l’artista ci offre un saggio ravvicinato del suo immaginario, un posto dove prende corpo quello che per Alessandro Riva “è lo spazio arcano e misterioso di un disordinato deliquio dei sensi e della mente, è l’espansione del pensiero e della coscienza senza i freni inibitori delle convenzioni dei linguaggi artistici”[3]. Qui, oltre che nelle tele e nelle carte, assumono letteralmente spessore le spaventose creature dell’artista, evoluzioni mutagene di quelle che, secoli orsono, infestavano le tavole di Hieronymus Bosch e di Pieter Brueghel o le cupe fantasmagorie di Francisco Goya e di Heinrich Füssli. In queste bizzarre animazioni, indecifrabili e prive di qualsiasi struttura narrativa, l’artista ci accompagna attraverso i meandri delle sue ossessioni, tra macrocefali armati e ipertrofici cowboy, mucche pazze e mostri alati, sulle note di una partitura sonora in bilico tra un jingle videoludico ed una forsennata musica balcanica. Qui, in quelle che Paolo Manazza ha definito “fulminanti allucinazioni”[4], lo spazio diventa una dimensione inafferrabile, dove gli sfondi architettonici e, con essi, anche i punti di fuga e le prospettive, mutano ininterrottamente. Qui, nel mezzo di questo caos d’immagini e suoni che ci regala l’immagine finale e indelebile di un messianico, redivivo Elvis Presley, proprio qui, in verità, pulsa il cuore sacro e selvaggio dell’arte di Kinki Texas.