di Ivan Quaroni
Lungo tutta la traiettoria della parabola di Bartolini, compare una sorta di imprinting ritmico, una tendenza alla reiterazione, alla partizione, alla modulazione e alla misura. È quanto, per esempio, avviene nei primi pattern regolari, realizzati con carta da pacchi e kleenex del 1974, ma anche nelle Cartapaglie (1975), costruite con carte alimentari a formare ordinate sequenze di moduli quadrati, dove si alternano superfici lisce e rugose. Lo stesso si può dire per le installazioni The Pearl Mosque (1977) e Ouroboros (1977), in cui la disposizione ritmica delle carte si accompagna alla predilezione per gli spazi angolari, che spezzano l’andamento piano della superficie muraria. Anche in questo caso, l’angolo diviene un elemento ritmico, reiterato in quasi tutte le installazioni successive, da Annotazione e definizione di un feticcio (1978) a pressoché tutti gli episodi del ciclo di lavori dedicati ad Asterione (1980), da Eterna metamorfosi (1984) fino a Over hollow grounds (1986). Proprio in quest’ultima installazione compare, peraltro, uno strumento musicale, un gong, trasformato in segno/simbolo iconografico. Era già successo con le opere del periodo berlinese (1983-84), in particolar modo in Berliner klang (1983), installazione in cui compare il simandron, un gong di ferro arcuato in uso presso il monastero di Vatopedi, sul Monte Athos. Si tratta di uno strumento rituale che Bartolini utilizza come un vero e proprio segno modulare in dipinti come Arianna a Berlino (1983) e Suono del sud (1983), fino a trasformarlo in un diagramma ritmico nelle Acrobazie egiziane (1983), sorta di stilizzazione dei movimenti di una danzatrice egizia, ispirati ad un frammento di affresco staccato del Museo Egizio di Torino. Dalla ripetizione ritmica alla raffigurazione iconografica della danza il passo, se mi si concede il gioco di parole, è breve. Le evoluzioni mistiche della danzatrice egizia appaiono anche in Regina, little dancers (1983), mentre l’unione di movimento e ritmo sono il soggetto sia di Il suono che si spezza (1983) sia del polittico Shiva dancing in Berlin (1983), dove Bartolini distribuisce su 25 fogli di carta i segni di un’ideale partitura ritmica e coreografica.
La scansione è, quindi, una modalità ricorsiva in tutta l’opera dell’artista e assume forme diverse, correlandosi di volta in volta con simboli ed archetipi eterogenei. Ad esempio, gli aurei, e un poco orfici, cerchi concentrici dipinti su rettangoli di carta nelle opere dedicate al mito di Atlantide (1980), qui simboli di una centralità spirituale perduta, si trasformano, in seguito, in raffigurazioni spiraliformi e labirintiche o permangono nello stato circolare sotto forma di ruota (Il giardino, la ruota l’autunno, 1986), grafema che nel Buddismo rappresenta il Samsara, ovvero il ciclo di vita, morte e rinascita all’origine della sofferenza degli esseri senzienti. In altri casi i cerchi sono ombelichi (Onphalos, 1985-86), ossia simbolizzazioni del centro del mondo, inteso come asse spirituale e mistico, lo stesso che compare, come segno verticale e divisorio nella cadenzata sequenza di Alberi che costituiscono l’installazione Foresta interiore (1989).
Tutti i simboli e i significati a cui allude Bartolini nel corso della sua ricerca possono essere ricondotti alla medesima istanza: il ritmo. Esistono anche lavori dichiaratamente dedicati a questo concetto, come ad esempio Ritmico (1988) e Ineguale, ma ritmico (1988) in cui gli elementi circolari, sovrapposti in senso verticale formano un ennesimo axis mundi. Quanto alla struttura modulare, essa si perpetua anche negli ultimi cicli, Emblematische blumen (1990), O sporos (1991) e, infine, Soffi di luce (1991), che ruotano attorno ad un discorso di proporzioni auree o simmetriche. In Emblematische blumen, infatti, la partizione dello spazio corre lungo una linea aurea orizzontale che si offre come soglia liminare di una realtà superiore, sotto la quale si affastella una materia monocromatica scura e irrequieta. In O sporos, invece, l’elemento verticale, tradizionalmente inteso come asse di comunicazione tra la materia e lo spirito, tra la terra e il cielo, prende la forma di una mandorla allungata. La mandorla, che nella simbologia esoterica è indicata anche come vescica piscis, è un simbolo cristiano (il Cristo in mandorla è una raffigurazione ricorrente, come pure l’identificazione tra il Cristo e il pesce), ma la sua origine è iperborea ed connessa al principio generativo o alla Grande Madre di tutte le tradizioni spirituali. In tal senso, le mandorle di Bartolini sono semi (o sporos), in senso vegetale, ma la forma richiama, inequivocabilmente, l’organo femminile.
Nell’ultimo ciclo di opere dell’artista, i Soffi di luce, la partizione simmetrica genera due valve di dittico perfettamente corrispondenti, alla maniera delle antiche icone portatili bizantine, che servivano da strumento di evangelizzazione per i monaci pellegrini o da oggetto devozionale per i fedeli. Qui si palesa quello che Martina Corgnati ha definito la rappresentazione di un “moto binario”, che è non solo frutto di una bipartizione formale (tra collage e pittura, ad esempio), ma soprattutto un’allusione alla struttura fondante dell’esistenza, quella del respiro, cui aveva già tributato una serie omonima di mosaici nel 1990. “Il ritmo profondo del respiro universale”, scrive Corgnati, “scandisce il divenire di tutte le cose, il cosmico andirivieni da e verso l’Essere”[1]. Infatti, proprio il ritmo del respiro è alla base di molte forme di meditazione spirituale, dai mantra induisti e tibetani (questi ultimi spesso incisi sulle rocce e perfino sulle corna di bue, altro simbolo ricorrente nell’opera di Bartolini) fino alle giaculatorie cristiane, passando per i Dhikr [2]della mistica sufi. Nel 1991 quando Bartolini mise la basmala[3] sulla copertina del catalogo della mostra O sporos, doveva senz’altro sapere che essa è non solo la formula di apertura della preghiera islamica (Fātiha), ma altresì la frase rituale più ripetuta durante lo Dhikr.
Pavel Florenskij ebbe a scrivere che “nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo spirituale”. “Lì, senza immagini” – spiegava teorico dell’arte russo – “si nutre della contemplazione dell’esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni noumeni delle cose e, impregnata, carica di conoscenza ritorna al mondo terreno”[4]. Pur descrivendo l’esperienza dell’ispirazione nei pittori di icone, entro una prospettiva, come direbbe Elemire Zolla, “tradizionalista”, le parole di Florenskij sembrano ricalcare il ritmo biologico della respirazione. In effetti, le parole “ispirazione” e “respirazione” provengono da una stessa radice e inoltre, in molte lingue antiche e moderne, la parola “respiro” è all’origine di termini come “anima”, “spirito” e “vita”. Tutti concetti che Luciano Bartolini stava cercando di recuperare all’arte attraverso procedure che qualcuno ha definito “inattuali” e che consistevano in un tentativo di recuperare un asse spirituale, quel “centro” che secondo Hans Sedlmayr[5] le arti hanno irrimediabilmente perduto. Da occidentale quale era, Luciano Bartolini ha avvertito questo squilibrio, questo vuoto pneumatico della post-modernità, ed ha tentato in ogni modo di ricostruire un rapporto con le strutture fondamentali dell’essere umano, con quei simboli e quegli archetipi millenari, che egli mescolava con i linguaggi, per antonomasia anti-tradizionali, dell’arte contemporanea.