Ivan Quaroni
“Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.” (Canto il corpo elettrico, Walt Whitman)Il termine futurismo venne usato per la prima volta nel 1903 dallo scrittore catalano G. Alomar e presentato cinque anni dopo in un articolo dal Mercure de France che probabilmente Marinetti ebbe occasione di leggere. Prima di adottare definitivamente il termine Futurismo, pare che Marinetti pensasse di battezzare il suo movimento con il nome di “elettricismo”. A fargli cambiare idea fu il timore che i suoi seguaci sarebbero stati chiamati inevitabilmente “elettricisti”. È curioso, invece, che Marco Lodola, membro dei cosiddetti Nuovi Futuristi, corrente postmodernista nata nella Milano degli anni Ottanta con la complicità dei compianti Luciano Inga Pin e Francesca Alinovi e dell’ancora attivissimo Renato Barilli, si definisca un “elettricista” e che abbia più volte dichiarato di sentirsi realizzato quando manipola i materiali e attacca i fili che accendono e sue sculture.
Fin dagli esordi, in quel lontano 1983, fu subito chiaro che il movimento neofuturista s’inseriva non sulla scia della lezione di Umberto Boccioni, ma su quella tracciata da Giacomo Balla e Fortunato Depero, che nel manifesto della “Ricostruzione futurista dell’universo” prefigurava un’apertura verso la contaminazione con la moda, la pubblicità, l’arredamento e l’architettura. Ora, se c’è un aspetto che caratterizza l’opera di Lodola, oltre alla predilezione evidente per la luce elettrica come forma di propagazione della pittura (e della scultura), è proprio la contaminazione con ambiti e linguaggi limitrofi al mondo dell’arte. Sono note le sue molteplici collaborazioni con brand internazionali come Coca Cola, Harley Davidson, Coveri, Seat, Ducati, Carlsberg e le sue frequenti incursioni nel’ambito della musica pop, del teatro, dell’editoria e della pubblicità. Di fatto, ripercorrere l’attività dell’artista pavese, equivale a immergersi nel vivo di tutti gli aspetti che hanno segnato la creatività di questi ultimi trent’anni. Prova ne è che anche chi non è un esperto d’arte ha avuto modo, prima o poi, d’imbattersi nelle immagini create da questo formidabile artista e comunicatore. Gli artwork per Timoria e 883, le scenografie realizzate per il format televisivo X-Factor, i restyling dei loghi per il i 50 anni dell’ARCI, per il 70 ° Maggio Fiorentino, per il centenario della Fiat Avio e l’intervento di “cosmesi elettrica” delle facciate dell’Ariston e del Casinò in occasione del 58° Festival di San Remo sono solo alcuni degli episodi che testimoniano la sua attitudine a invadere l’immaginario collettivo, portando l’arte fuori dai suoi confini e traghettandola verso un pubblico più vasto. In fondo, proprio questa tendenza aperta, orizzontale, questa propensione verso la contaminazione e l’ibridazione di linguaggi era già contenuta, sotto forma di premessa, nelle prassi postmoderniste di gruppi come Nuovi Futuristi e Nuovi Nuovi. D’altra parte, il postmoderno, come faceva notare Fulvio Carmagnola, “è stato caratterizzato da alcuni aspetti specifici: ibridazione tra culture alte e basse, eclettismo stilistico e mescolanze di tradizioni differenti, consumo vistoso ed esibitorio, importanza sempre maggiore dell’ambiente mediale”[1].
Non so se questa propensione in Marco Lodola sia frutto di una scelta consapevole o di una naturale inclinazione espansiva. A suo dire, queste sono categorie inventate da critici e galleristi, in cui gli artisti si ritrovano loro malgrado. Ma in questo caso, la convergenza con l’immaginario e l’attitudine postmodernista è qualcosa di più di una semplice suggestione. Anche i soggetti iconografici, che comprendono icone della mitologia rock, ballerini, oggetti di culto come la Vespa e la Cinquecento, talvolta anche figure e simboli della società dei consumi, testimoniano l’istintiva inclinazione dell’artista verso le pratiche di campionamento e remix iconografico. Eppure, è chiaro che relegare l’opera di Lodola solo all’ambito dei “post” e dei “neo” movimenti degli anni Ottanta è riduttivo. Mi sembra, invece, che tra tutte le espressioni nate in quello splendido decennio, quella scelta da Lodola si sia dimostrata la più longeva, insomma una delle poche capaci di sopravvivere ai continui sommovimenti di quella che Zygmunt Bauman ha definito “società liquido-moderna”. Una società, che come spiega il celebre sociologo, è caratterizzata da continui e rapidi cambiamenti, simili, per certi versi, a quelli imposti dalla stagionalità della moda e del gusto.
Ora, se a distanza di trent’anni le sculture luminose di Lodola resistono all’usura del tempo, il motivo sta forse nella capacità dell’artista d’interpretare il mood emotivo di quest’epoca così sfuggente. Se c’è qualcosa, infatti, di più inafferrabile della liquidità teorizzata da Bauman, è proprio la luce, che è poi la vera sostanza dei lavori di Lodola. Neutrini a parte, essa è ancora la forma di energia con la più elevata capacità di propagazione. E Lodola questo l’ha sempre saputo. La luce elettrica, già cantata dai futuristi, è ormai da tempo entrata nel novero dei materiali artistici è stata usata, sotto forma di lampade al neon e led, da moltissimi artisti, da Dan Flavin a Mario Merz, da Bruce Nauman a Tony Oursler, da Fabrizio Plessi a Carsten Holler, fino a Elisa Sighicelli. A differenza di questi artisti, però, Marco Lodola usa la luce per comunicare e non per stupire. Nelle sue opere si avverte l’urgenza gioiosa di condividere – “di abbracciare”, direbbe lui -, che invece è assente nella maggior parte delle opere concettuali. Quelle opere, per intenderci, che come diceva Maurizio Sciaccaluga, hanno bisogno del libretto d’istruzioni. Le opere di Lodola invece no. Arrivano dirette, come le grandi insegne pubblicitarie, ma non contengono alcun messaggio promozionale. Anzi, non contengono alcun tipo messaggio.
Piuttosto, sono opere” luciferine”, nel senso più letterale del termine, manufatti che “trasmettono luce”, proiettando i colori dell’iride nelle case, nelle piazze, sulle facciate degli edifici, insomma ovunque ci sia un luogo atto a ospitarle. E proprio questa capacità di “illuminare” non solo lo spazio fisico, ma anche quello metafisico e mentale dell’osservatore – qualità che dovrebbe essere propria di ogni forma d’arte – è l’elemento più pregnante del suo lavoro. Anche la scelta di usare colori primari e tinte sature per “riempire” le campiture piatte delle sue sagome, è sintomo, in fondo, di una profonda necessità di comunicare col prossimo in modo diretto e, per così dire, senza filtri intellettuali e concettuali. Le sue sculture luminose e i suoi accattivanti “quadri elettrici” possiedono tanto l’efficacia dei tabelloni pubblicitari, quanto la semplicità e immediatezza dei cartelli stradali e, così, penetrano nell’immaginario collettivo con facilità. Non a caso, le figure che popolano i light box dell’artista, siano essi cantanti rock, musicisti pop, ballerini o pin up, appartengono all’immenso serbatoio iconografico della cultura pop. Una cultura condivisa a ogni latitudine, una lingua universale che abbatte le barriere politiche, sociali, etniche per diventare terreno comune di confronto e laboratorio sperimentale permanente.
In quel magnifico sussidiario di filosofia pop che è Cartesio non balla, Franco Bolelli affermava che “il pop è una cultura di flusso, e la sua essenza più sperimentale è ciò che le permette non soltanto di cavalcare ma di orientare la corrente”[2] . L’idea di cavalcare la corrente richiama inevitabilmente alla mente la figura del surfer, che oggi è divenuto simbolo di un nuovo modello antropologico. “Galleggiare, stare in superficie senza essere superficiali, ecco il grande azzardo”[3], scriveva Sgarbi a proposito dell’artista. Anche Marco Lodola, come il moderno surfer, solca le onde della contemporaneità con impeccabile levità, ma dietro la superficie delle sue scatole luminose, oltre quelle figure dai contorni marcati e dai colori piatti, si avvertono i barbagli elettrici del Futurismo, le magie cromatiche dell’Orfismo e dei Fauves, le geniali intuizioni della Pop Art, i pasticci stilistici dei postmoderni e molto altro ancora. In Lodola, che assai prima di Julian Opie ha sposato l’efficacia segnaletica con la tecnica della retroilluminazione, queste eredità non sono che mere suggestioni per gli specialisti dell’arte. Ciò che conta è il piacere delle immagini e la loro facoltà di solleticare i sensi, risvegliandoli dal torpore cui ci ha abituati tanta arte contemporanea. Come Lucifero, che significa letteralmente “Portatore di luce”, derivazione dall’equivalente latino lucifer, composto di lux (luce) e ferre (portare), Marco Lodola è anche “seduttivo”. La sua è, infatti, un’arte eccitante, elettrizzante e sexy, insomma un’arte che affonda le radici nella fisiologia e nella biologia degli individui e che ci insegna, come direbbe Bolelli, “che esistono mondi da esplorare al di là della linea binaria che separa l’intelligenza dalla mancanza d’intelligenza, la morale dall’immorale, la virtù dal peccato, l’estetica dalla bruttezza”[4].