di Ivan Quaroni
Vedete la nudità, l’inciampo, la caduta, l’equilibrio precario? Sentite l’incertezza, la prova, continuamente ripetuta, di una possibilità? Questo tentativo scarno di esistere nei confini di una pratica, di un esercizio, di una fatica anche. La nudità, nei lavori di Marco Luzi, non è una semplice esibizione di corpi svestiti o una suadente esposizione di carni erotiche. Finanche protetti dai vestiti, avvolti nei cappotti, i personaggi di Luzi sono nudi. Nudi in una maniera disarmante, persino imbarazzante, insomma tremendamente reale. Nuda Veritas, senza nascondimenti. La verità non è candida e virginale, ma neppure voluttuosa. La verità è lì, dov’è sempre stata, dietro l’occhio offuscato dalla cataratta della realtà. La si può trovare proprio mentre si cerca di sfuggire ad essa. Anzi più la si evita più ti bracca e alla fine ti vince.
Prima della tecnica, dell’invenzione, del virtuosismo, nei lavori di Luzi c’è questa verità, che assume pose goffe, che affiora dalle smorfie, che dilaga nelle cadute vertiginose, nelle prospettive sghembe. C’è anche una pudicizia, una vergogna forse. E poi una solitudine bianca, accecante, che illumina i corpi per mezzo di una totale assenza di sfondi. Questa solitudine limbica, sospesa è lo spazio in cui si dibatte la consapevolezza del pittore, ma sospetto anche dell’uomo. È come il clean, well lighted place di Hemingway, un posto qualsiasi, ma pulito e ben illuminato, dove trovare un momentaneo rifugio. O forse la tela di Luzi è il posto senza scampo dove la carne, con le sue modificazioni, è rischiarata, colpita violentemente dalla luce. Ma è una carne che progressivamente si disumanizza, che accoglie la tecnologia, forzandola dentro i confini della materia organica.
Nei lavori dell’artista marchigiano abbondano protesi di ogni tipo, gambe posticce, corpi di bambola, peni smisurati, indolenti. Certe volte persino gli organi vengono esibiti come nelle illustrazioni di un volume di medicina. Ci sono bulbi piliferi, cuori dislocati, ingranditi da una visione macroscopica. La pelle dei suoi personaggi è arrossata, irritata, viva. Da quell’epidermide, ora flaccida ora tonica, emana una verità che noi occidentali tendiamo spesso a dimenticare. Il corpo è reale, in costante evoluzione e possiede una consistenza, una motilità. Non si può bloccare il corpo in una forma statica, ad esempio eternamente immobile e dunque giovane. La pelle invecchia, gli organi si consumano. Si muore, nonostante tutto, a dispetto delle estensioni e degli aggiustamenti che imponiamo a questa macchina imperfetta. La chirurgia estetica, alla fine, avrà la sua sconfitta. La cosmetica pure. Il corpo vive e muore nello stesso tempo, ha un afrore che le protesi di carbonio non hanno e nemmeno i siliconi. Luzi è colpito dalla capacità dei corpi di diventare inerti come oggetti, di scambiare l’orrore corruttibile dei tessuti con lo splendore lucido delle leghe metalliche e delle gomme. Eppure il suo non è ancora il corpo elettrico cantato da Walt Whitman, ma piuttosto quello meccanico di Philp Dick o di James Ballard. Un corpo provvisto di estensioni, d’innesti, dove si consuma l’incesto tra uomo e macchina. Luzi denuncia la folle illusione dell’uomo moderno, non più capace di accettare il dolore, l’invecchiamento, la morte, anche quando lo riguardano da vicino.
Anche dipingere in maniera meticolosa, testarda può essere una forma di dolore o quantomeno di sforzo. Quando lo fa, Luzi non tralascia i dettagli, ma insiste sulla resa ottica fino allo stremo. Ciononostante egli non è affatto un iperrealista, non è un riproduttore fedele della realtà. Preferisce alterare le proporzioni, adottare prospettive deformanti, per osservare le cose più da vicino. Luzi è un realista fantastico, un utopista negativo, che ricostruisce verità che l’obiettivo di una macchina fotografica non può restituirci. La fotografia è per lui solo un punto di partenza, un’occasione per studiare l’incidenza della luce, la posizione dei soggetti, gli angoli prospettici. La sfida, invece, è nel farsi della pittura, in quello scontro ravvicinato, quasi un corpo a corpo, tra il pennello e la tela. Qui c’è un mistero, che in altri artisti è completamente assente. L’idea iniziale di Luzi, infatti, può subire molteplici modificazioni in corso d’opera. C’è una qualità erratica nel suo modo di dipingere, una capacità di perdita e di smarrimento che somiglia alle indagini dell’analisi psicanalitica.
In molti artisti della cosiddetta Nuova Figurazione, invece, l’opera è la logica conseguenza di un progetto dettagliato, che limita l’eventualità di un ripensamento. E, in verità, non è questo il solo elemento di differenza con gli artisti neofigurativi. Marco Luzi, ad esempio, non è affatto influenzato dai linguaggi mediatici. Non ricava le sue immagini dal cinema, dalla televisione, dai fumetti o dalla pubblicità, ma fabbrica le sue visioni autonomamente. Le sue immagini schivano la banalità della comunicazione mass-mediatica, perché sono il frutto di un’intuizione illogica, di una percezione istintiva, quasi animale, dell’oggetto rappresentato. Questa attitudine ferina si avverte pure nel suo modo di restituirci la figura a tutto tondo, quasi potessimo respirarne l’odore, percepirne il calore, sentirne la sostanza.
Capita raramente che un dipinto ci colpisca in modo così diretto, che ci conquisti ancor prima che intervengano i nostri abituali meccanismi cognitivi, i quali ridefiniscono la nostra percezione sulla base di criteri pregiudiziali o di preconcetti. I corpi crudi di Marco Luzi favoriscono, invece, questa capacità di anti-vedere, di pre-vedere, scartando la ragione giusto un attimo prima che intervenga a riorganizzare lo sguardo. La loro forza non consiste unicamente nella qualità della pittura, nella pulizia formale, cosi priva di sbavature, ma è la conseguenza di un’innata abilità a organizzare lo spazio e a distribuire i pesi sulla tela. Nei suoi ritratti non c’è la visione frontale, l’impostazione simmetrica, centrale. Tutte le figure sono sbilanciate su un lato, quasi si volesse dare loro aria e respiro. Assai spesso esse ci volgono le spalle, ci offrono il profilo e ci guardano dall’alto o dal basso secondo vertiginosi tagli prospettici. Insomma, sono presenti e insieme sfuggenti, forse inadeguate. C’è in loro una sorta di potenza trattenuta che stenta a farsi atto, una bellezza che morde il freno ed è sul punto di implodere.
La consuetudine critica ci obbliga spesso a trovare dei paragoni, dei punti di contatto con il lavoro di altri nell’intento di dare una collocazione alla ricerca di un artista, d’inserirla in un contesto storico preciso. Nel caso di Marco Luzi questo tentativo sarebbe forzato e, quindi, fallimentare. Il suo è infatti un linguaggio singolare, inedito, ma soprattutto svincolato dalle tendenze e dalle mode della pittura contemporanea. La sua attualità, tuttavia, è evidente nel modo di trattare le figure e di affrontare tematiche che riflettono le urgenze del presente. Si può essere attuali senza essere effimeri? Io credo di si. Il lavoro di Luzi ha una solidità intrinseca, una stabilità d’intenti che ne garantiranno la sopravvivenza. Non ci sono orpelli, malizie, ammiccamenti nelle sue tele. Al contrario, tutto è condensato, compatto, essenziale, come in certi capi d’opera di Caravaggio. Se non fosse un termine troppo logoro, abusato, perfino arrogante, non esiterei ad usare, almeno per una volta, la parola genio.