di Ivan Quaroni
“L’arte è un linguaggio grazie al quale si parla dell’anima in una forma che è accessibile e propria soltanto a questo linguaggio stesso…”
(Vasilij Kandinskij)
“La pittura deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno
di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione.”
(Carlo Carrà)
Nella Grecia antica la parola κόσμος(kósmos) era usata per indicare l’ordine naturale dell’universo, un concetto opposto a quello di caos, ma che era anche usato per significare, ad esempio, la configurazione di un esercito schierato in battaglia. Se si pensa, poi, che l’aggettivo “cosmetico” deriva da quella stessa parola, si può comprendere come nel pensiero classico ordine e armonia fossero considerati attributi della bellezza.
Come il kósmossia diventato il cosmo, cioè l’universo inteso nella sua accezione spaziale, può forse dircelo l’abitudine dell’uomo, fin dall’alba dei tempi, di alzare gli occhi al cielo per cercare un ordine tra le stelle, per scorgere un assetto o una struttura da cui trarre la confortevole sensazione di appartenere a qualcosa di più grande. È stata quest’abitudine, reiterata nei secoli, a dare impulso alla filosofia e alla scienza e a favorire la nota la propensione umana a trovare corrispondenze tra ciò che è esteriore e ciò che è interiore, come pure tra ciò che è infinitamente grande e ciò che è infinitamente piccolo. Lo sa bene Robert Pan, artista che da oltre trent’anni guarda nelle profondità della propria psiche per costruire un universo visivo, in bilico tra pittura e scultura, in cui è lecito intravedere una sorta d’intuitiva trascrizione della geografia celeste.
Le cosmologie, o forse dovremmo dire le cosmogonie di Robert Pan – considerato il carattere spirituale ed enigmatico di certe sue allusioni – sono, infatti, il risultato non dell’osservazione astronomica dei misteri dello spazio profondo, ma il portato di una prassi artistica che ha finito col coincidere con l’esercizio stesso dell’introspezione.
Il sospetto che l’artista abbia usato pretestuosamente il cosmo per indagare l’interiorità dell’uomo, mi era venuto già qualche anno fa, quando notavo che “nell’immensità eterica delle sue mappe cosmiche, così simili agli universi della fisica quantistica (dove gli scienziati cercano la ‘particella di Dio’), non avvertiamo mai il freddo inimmaginabile delle distanze siderali, ma piuttosto il fervore partecipe e trepidante di un sentimento umano, appunto troppo umano”.[1]Ora, mi pare vero, piuttosto, che quell’oscuro scrutare tra le galassie dell’immaginazione sia, per l’artista, un modo di conoscere la realtà fenomenica, un sistema per comprendere le leggi che governano l’universo. Non è un caso che, durante tutti questi anni, Robert Pan sia spesso ricorso, per i titoli delle sue mostre, a termini sanscriti come Dharma(legge universale),Līlā(gioco cosmico) o Ākāśa(etere), oppure a vocaboli del lessico astronomico come Zenit(il punto d’intersezione della sfera celeste con la perpendicolare passante per il punto d’osservazione sulla superficie terrestre), Quasar(contrazione di QUASi-stellARradio source, cioè “radiosorgente quasi stellare”) o Sternenstaub(che in tedesco significa “polvere di stelle”).
I titoli sono sempre stati importanti per Robert Pan, forse perché costituiscono un’indicazione preziosa, che permette all’osservatore di decrittare almeno parzialmente le sue opere astratte, che sono traduzioni visive di intuizioni e sensazioni altrimenti enigmatiche e ineffabili.
Nel praticare le forme dell’analogia, individuando appunto dentro di sé costrutti e strutture simili a quelli che governano il macrocosmo materiale, l’artista altoatesino ha sviluppato un linguaggio originale, dove la luce, il colore e la geometria ricoprono un ruolo fondamentale.
Si dirà che tutta la pittura astratta, o gran parte di essa, ha sempre ruotato attorno a questi tre elementi, ma quella di Pan non è propriamente pittura e nemmeno scultura. È, semmai, qualcosa che adotta il lessico bidimensionale dell’una, senza rinunciare alla valenza volumetrica e oggettuale dell’altra. La sua specificità dipende, in gran parte, dalla scelta dell’artista di utilizzare un materiale come la resina sintetica, mescolandola al colore e trasformando, dunque, una sostanza destinata a solidificarsi in una pletora di superfici pittoriche affastellate le une sulle altre e lavorate secondo un metodo squisitamente plastico. Un metodo che è, insieme, additivo e sottrattivo. In molti hanno tentato di spiegare il processo di creazione delle sue opere, ma la verità è che Robert Pan è molto elusivo sull’argomento.
La tecnica, cioè quello che per i greci dell’antichità era l’insieme delle norme applicate e seguite in un’attività materiale o intellettuale, resta per molti un segreto. Basti qui sapere che lo studio dell’artista è più simile a un’officina che a un atelier e che, nonostante ciò, i macchinari usati in alcune fasi della lavorazione non compendiano l’intera procedura, che resta sostanzialmente manuale e artigianale. D’altra parte, come recita un antico proverbio, “la meraviglia è figlia dell’ignoranza e madre del sapere” e proprio la meraviglia è il sentimento che spesso destano le opere di Robert Pan, una specie di combinazione di stupore e desiderio di comprensione.
Conoscere dettagliatamente la tecnica dell’artista, capirne ogni passaggio, disvelare l’ordine degli interventi, palesare l’elenco delle sostanze chimiche o il ruolo degli acidi non aggiungerebbe nulla all’esperienza dell’osservatore. La magia, piuttosto, sta nel lasciar intuire il senso di una procedura quasi alchemica, che consiste nel trasformare la resina, un derivato del petrolio, il sangue nero della terra, in un ricettacolo di luce e colori. Ma, come nell’opus magnum, dove la trasformazione del piombo in oro prefigura il processo di raffinazione interiore dell’apprendista, così, nell’opera di Robert Pan, la lavorazione artigianale e lo sforzo di distillare le forme dal magma indistinto della materia si accompagnano all’impresa di tradurre in immagini le intuizioni interiori, quelle che il filosofo e matematico tedesco Leibniz chiamava kleine wahrnehmungen, ossia “piccole percezioni” che l’uomo assimila inconsciamente e che, insieme ad altre sensazioni impalpabili, da sempre gli artisti astratti cercano di trasporre nel linguaggio visivo.
Insomma, per dirla ancora con Leibniz, nello iato che separa la res cogitans, cartesiana sostanza pensante, dalla res estensa, fattualità tangibile delle cose, sta la misura (e la qualità) del percorso creativo di Robert Pan. Un percorso che, appunto, parafrasa la dimensione “mentale” in quella puramente retinica, dominata da trame e orditi ricavati dalla progressiva stratificazione e sovrapposizione di resine e pigmenti che finiscono per assumere l’aspetto di morfologie celesti, di geografie stellari in cui pare di avvertire la vitalità lenta e inesorabile di mondi lontanissimi, il respiro delle nebulose planetarie e l’ansito perduto d’intere galassie. Non è casuale che la forma dominante nelle opere di Pan – quella circolare ed ellittica – sia copiosamente reiterata nelle sue opere in una moltitudine quasi pulviscolare, esattamente come certe forme osservabili di astri e pianeti.
Il riferimento a concetti astronomici, diventato ormai una tradizione nel percorso espositivo dell’artista, torna anche nei lavori raccolti in questa mostra. Si tratta di un riferimento come sempre pretestuoso, che però serve a perpetuare, seppur blandamente, l’idea di una coincidenza, o meglio di un’analogia formale tra l’universo visivo dell’artista e l’universo propriamente detto.
Ad esempio, Cosmic Latte, il peregrino titolo di questa mostra, è il nome assegnato da un team di scienziati della Johns Hopskins University al colore medio dell’universo, ricavato dallo studio dello spettro della luce di oltre duecentomila galassie. Questo bianco tendente al beige, quasi una sorta di cappuccino cosmico, è però destinato a cambiare tinta via via che le galassie andranno raffreddandosi. Ora, non sappiamo se mescolando tutti i pigmenti dei lavori di Pan otterremmo proprio quella sfumatura. Quel che è certo, piuttosto, è che a distanza di anni le immagini scaturite dalla fantasia dell’artista continuano a evocare tanto le formazioni galattiche e gli ammassi stellari, quanto, a un livello microscopico, gli agglomerati di cellule e molecole.
Se, come notava qualche anno fa Valerio Dehò, il segreto del lavoro di Pan sta nella sedimentazione, in quella ritmata stratificazione fatta di aggiunte, ma anche di sottrazioni, insomma in quella sorta di feroce corpo a corpo tra l’artista e la materia, il risultato dal punto di vista visivo è, piuttosto, improntato alla levità e alla leggerezza.
Le immagini di Robert Pan aprono un immaginifico vulnusspaziale, che si affaccia su universi infinitamente grandi e infinitamente piccoli. E, a ben vedere, le sue costellazioni brulicano di forme aureolate che sono il frutto di un progressivo deposito di sostanze e colori. Proprio quel pullulare, quel dinamico formicolare di nuclei che paiono dividersi e moltiplicarsi come per effetto di un’incessante mitosi cellulare, danno l’impressione che Pan abbia attinto, più o meno consciamente, alle sorgenti stesse della vita. Davanti alle sue opere siamo tentati di ritrovare l’ordine aureo di una geometria che vorremmo “superiore”, per non dire “divina”. E, in effetti, proprio Dehò indicava come in molte opere dell’artista altoatesino apparisse “soprattutto ad una media distanza di visione, la forma del quadrato, quasi un omaggio all’Homage to the Squaredi Josef Albers”[2].
Anche nei lavori più recenti torna ad affiorare l’afflato geometrico di Pan, questa volta non più nella figura cara ad Albers (ma anche a Max Bill), ma in una sporadica tendenza verso la quadripartizione della superficie dell’opera, come nei lavori del 2017, enigmaticamente intitolati KJ 5,956 MW,SG 9,773 CH, AK 2,976 DCe XO 3,525 NK.
Se non apparisse una forzatura, si potrebbe addirittura invocare l’influsso delle croci suprematiste di Kasimir Malevich. La verità, invece, è che quella affiorante dalle opere di Pan non è mai stata una geometria rigorosa, rettilinea, appunto, come quella del maestro russo, ma una geometria lirica, singolare, analoga a quella che domina le strutture delle forme organiche e naturali.
Piet Mondrian, altro artista devoto dei quadrati (e dei rettangoli), pensava che l’aspetto delle forme naturali fosse destinato a modificarsi e che soltanto la realtà rimanesse costante. Il suo, però, era un concetto neoplatonico di realtà, insieme astratto e ideale, che gli impediva di cogliere quello che invece l’artista sembra aver compreso sin dagli esordi della sua carriera. Cioè che l’immaginazione ha un fondamento naturale. Essendo, infatti, una facoltà radicata nella biologia dell’individuo, essa ci mostra la reale natura delle cose, non la loro apparenza.
Per dirla con il poeta e filosofo sufi Ibn Arabi, “Sappi che tu sei immaginazione e la totalità di ciò che percepisci – che dici di esserenon-io– è immaginazione nell’immaginazione”. Proprio come le cosmologie di Robert Pan, così simili, nel pensiero proiettivo e creativo dell’artista, tanto alle unità fondamentali della vita, quanto ai più remoti ssistemi planetari.
Note
[1]Ivan Quaroni, Quasar, in Robert Pan, Sternenstaub | Quasar, a cura di Ivan Quaroni, 28 aprile – 27 maggio 2012, Marcorossi artecontemporanea, Pietrasanta; 5 maggio – 16 giugno 2012, Marcorossi artecontemporanea, Verona, Carlo Cambi Editore, 2012, p. 7.
[2]Valerio Dehò, Geometrie dell’infinito, in Robert Pan, a cura di Valerio Dehò, 25 marzo – 27 aprile 2011, Galleria Goethe, Bolzano, Vanilla edizioni, 2011, p. 11.
Info:
Robert Pan. Cosmic Latte
a cura di Ivan Quaroni
Lorenzelli Arte
C.so Buenos Aires 2, Milano
Opening: mercoledi 30 maggio 2018