Ivan Quaroni
“Tutto ciò che in questo mondo inferiore produce
e trasmette la specie è lo strumento dei corpi celesti”
(Tommaso d’Aquino)
L’arte aniconica, astratta, si configura spesso come un’indagine rivolta all’analisi delle forme e delle figure che abitano la struttura inconscia dell’individuo, una pratica in qualche modo elitaria, che sposta lo sguardo dell’artista dal mondo dei fenomeni a quello delle impressioni, delle intuizioni profonde e delle epifanie interiori. Allo stesso tempo, essa è una disciplina, un dharma che coinvolge la luce, il colore e la geometria in relazione alle infinite possibilità di rappresentazione dell’indicibile e dell’ineffabile. Si tratta, per l’artista, di un percorso di scoperte e rivelazioni che riguardano non solo il linguaggio formale, la tecnica o la comprensione dei materiali, dei pigmenti, degli strumenti dell’opera, ma anche, e forse soprattutto, la natura stessa dell’individuo e i suoi rapporti con l’universo circostante.
Per Robert Pan, operare in questo tipo di dominio dell’immagine significa praticare le forme dell’analogia, individuare dentro di se costrutti e strutture che riecheggiano quelle del mondo materiale, in particolare formazioni e conglomerati che riflettono, per similitudine appunto, l’organizzazione macrocosmica dell’universo. Ciò che più stupisce in Pan è la capacità di cercare il “fondamento della realtà” non all’esterno, in quella dimensione che Schopenhauer immaginava avvolta in un illusorio velo di Maya, ma nella dimensione individuale della psiche e dello spirito, nel regno delle percezioni sottili e delle improvvise illuminazioni. Questo, però, non fa di lui un artista platonico, un simbolista dell’astrazione. Anzi, Robert Pan è tremendamente concreto, sempre intento a dominare la materia, a disciplinare, e perfino forzare, la chimica degli elementi, come un alchimista impegnato trasformare in oro la vile natura del piombo. Il punto di partenza, ma anche l’intero processo della sua opera, è, infatti, segnato dall’utilizzo della resina sintetica, un derivato del petrolio, dunque qualcosa di intimamente connesso con la terra, come un plasma tellurico che attraversa le viscere del globo terracqueo.
L’opera di Pan è, quindi, saldamente radicata nella realtà, poiché prende le mosse da una sostanza tangibile, viscosa, che in poco tempo si solidifica in un composto duro e cristallino. Eppure, il suo modus operandi non concerne solo la materia e le sue potenzialità metamorfiche, ma anche il tempo e la durata, cioè lo spazio che intercorre tra una fase e l’altra dell’opus, la quantità entro cui l’artista è costretto a dipanare la matassa delle entità fisiche per individuare l’ordine o il caos. Fedele al suo apprendistato, al suo background culturale, Pan plasma i suoi lavori come uno scultore, fabbricando l’oggetto per sovrapposizioni di strati, per accumulazione di resine e pigmenti. Poi, come usava fare Michelangelo con i blocchi di marmo, “vede” l’immagine imprigionata nella materia e la libera “per via di togliere”, scavando e bruciando con gli acidi fino a svelare forme e colori sommersi. È una prassi perfezionata in anni di sperimentazione, una tecnica connessa con lo spazio e con la dimensione del manufatto. Le opere di Pan hanno corpo, sono oggetti che si guardano frontalmente, ma anche lateralmente, sono solidi attraversati da pattern e texture derivati da innumerevoli interventi di carotaggio. Sotto la patina lucente della resina riposano sterminate distese di pozzi e crateri, scarnificazioni che rendono la morfologia della superficie irregolare. Eppure, l’impressione finale è piuttosto simile a una mappa stellare, a un’immagine spettrografica della volta celeste che ci restituisce la meravigliosa visione di un mondo in permanente espansione e contrazione, come un gigantesco organismo vivente composto di trilioni di galassie e buchi neri.
Il cosmo è per Robert Pan un’ossessione ricorrente, un’immagine archetipica, che riproduce la compagine dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Nel susseguirsi di cicli come Dharma (legge cosmica), Akasha (etere), Lîlâ (gioco cosmico), Zenit e Sternenstaub (polvere di stelle), il “telescopio” dell’artista è puntato sulle lontananze siderali del cosmo, sul mistero insondabile dell’infinito, ma già si avverte che si tratta di uno spazio intercambiabile, che presenta diversi punti di contatto con le realtà della fisica subatomica. Anche i lavori della serie più recente, intitolata Quasar, proseguono l’ideale percorso di mappatura, la paziente compilazione di una cartografia interiore, dove ogni immagine è designata da sigle e coordinate simili a quelle usate in campo astronomico. Il quasar (contrazione del termine inglese che indica una radiosorgente quasi stellare – Quasi stellar radio source) è un corpo astronomico dall’intensa luminosità rossa, che secondo alcuni scienziati testimonia l’origine cosmologica delle galassie. Uno dei quasar più noti è 3C 273, situato a tre miliardi di anni luce dalla Terra e con una luminosità di magnitudo 13, superiore all’emissione luminosa di mille galassie. La sua forma circolare, avvolta da un’aureola, è la stessa reiterata ad libitum nelle ultime opere di Pan, distribuita su fondali che riproducono le incandescenze cromatiche dell’effetto redshift, derivato dallo spostamento verso il rosso dello spettro energetico.
Le criptiche denominazioni dei lavori di Pan sono, invece, il riflesso di una strenua volontà di sottrarsi alla tradizionale vocazione narrativa dei titoli, il segno di un pudore, che impone all’artista di preservarne il mistero. È vero, infatti, che le sue opere sono capaci di destare nell’osservatore un senso d’inattesa meraviglia, per via del loro forte impatto cromatico e formale. Ma, allo stesso tempo, esse danno l’impressione di essere intimamente connesse con strutture che presiedono all’origine della vita stessa. D’altra parte, in un celebre passo della Tavola Smeraldina è scritto che “Ciò che si trova in basso è come ciò che si trova in alto, e ciò che si trova in alto è come ciò che si trova in basso”. Una sentenza che anticipa, di diversi secoli, le osservazioni scientifiche che rilevavano le analogie tra le rivoluzioni dei pianeti intorno al sole e le orbite degli elettroni intorno al nucleo dell’atomo. Per la verità, che Robert Pan sondi il cosmo per indagare l’uomo, è più che un semplice sospetto. Nell’immensità eterica delle sue mappe cosmiche, così simili agli universi della fisica quantistica (dove gli scienziati cercano la “particella di Dio”), non avvertiamo mai il freddo inimmaginabile delle distanze siderali, ma piuttosto il fervore partecipe e trepidante di un sentimento umano, appunto troppo umano. Pan è stato definito un astrattista caldo, ma è, ancora di più, un artista concreto, talmente radicato nella realtà e nella materia da potersi permettere di spaziare oltre i confini di questo mondo. Per usare le parole di Ermete Trismegisto, egli “Ascende dalla terra al cielo e ridiscende in terra raccogliendo le forze delle cose superiori ed inferiori”. Ed è questa, forse, la più fedele metafora per descrivere l’opera dell’artista.