di Ivan Quaroni
«La pittura non deve essere esclusivamente visiva o retinica,
deve interessare anche “la materia grigia”.»
(Marcel Duchamp)
Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare un solo artista astratto che non sia passato prima attraverso una provvisoria fase figurativa. Alberto Magnelli, Manlio Rho, Mario Radice, Arturo Bonfanti e Osvaldo Licini – tanto per fare qualche esempio – sono tutti partiti da un confronto con la realtà mimetica e poi giunti, attraverso progressive sintesi, alla definizione di un linguaggio aniconico. Il linguaggio astratto, che la mitologia avanguardista vorrebbe originario e primigenio, si è, dunque, sviluppato solo in un momento successivo e ulteriore della storia dell’arte occidentale. Probabilmente aveva ragione Pablo Picasso, quando affermava che “L’arte astratta non esiste” e che “Devi sempre cominciare con qualcosa”, prima di rimuovere tutte le tracce della realtà.
Anche Ugo Molgani, prima di approdare all’astrazione (ma si può ancora chiamare così?), ha intrattenuto un lungo e fruttuoso dialogo con la figura. La sua ricerca si è, infatti, precisata nello scorcio finale degli anni Ottanta, in un clima culturale dominato dal Neoespressionismo e dalla Transavanguardia, oltre che dal gusto postmoderno per la citazione e il pastiche stilistico. Dopo oltre un decennio di strapotere delle correnti minimaliste e concettuali, la pittura torna in quel periodo a dettare l’agenda dell’arte contemporanea. Molgani, in procinto di terminare gli studi all’Accademia di Firenze, e già vincitore del Premio Lubiam (1982), assorbe pienamente il nuovo zeitgeist e si avvia a elaborare un linguaggio che combina l’interesse per la figura con la fascinazione per gli alfabeti astratti e i motivi esornativi. Lo dimostrano soprattutto i lavori seminali della serie Entre recuerdos y esperanzas (1989), dove suadenti nudi femminili si affiancano e si sovrappongono a riquadri testurizzati, che richiamano il gusto per l’ornamento di Matisse e dei Nabis.
La marca “francese” della pittura di Molgani, allora intrisa di seduzioni mitiche e classiche allusioni – come notava peraltro il giovane Maurizio Sciaccaluga[1] citando addirittura il mito di Diana e Atteone– marcava, tuttavia, un certo disinteresse per il dato mimetico. Le figure, ridotte a silhouette, assumevano, infatti, il valore di segni ed erano per molti versi simili ai grafismi quasi tribali di quelle prime grandi tempere su carta. Perfino la pulsione retrospettiva del ciclo Passato prossimo (1990) – disseminato di torsi mutili – che Mauro Panzera ascriveva alla lezione del Braque composto e neoclassico[2], mostrava quanto l’attitudine dell’artista fosse fondamentalmente cerebrale. Il corpo femminile, drasticamente linearizzato, non più carnale di un emblema o di un glifo, diventava, infatti, il lemma di una grammatica memoriale, il vocabolo di un discorso, tutto mentale, sulla pittura. Certo, già nei lavori degli anni Novanta si poteva cogliere una certa libertà espressiva, l’anelito ad affrancare, anche se disciplinatamente, il gesto pittorico dall’impianto compositivo.
“La colatura, la tache, un accenno di frottage, il ricorso alle velature”, scriveva Viana Conti, “offrono all’autore quel pretesto di casualità, che stabilisce, attraverso il rapporto, l’inequivocabilità del segno definitivo”.[3] E, infatti, sarà proprio il segno, unità basilare dei pattern e delle texture, a portare la pittura di Molgani verso un progressivo sfaldamento della forma. Già alla fine degli anni Novanta, quello che Viana Conti chiamava “paesaggio della figura”[4], slitta verso oggetti pretestuosi (come lampadari e fruttiere) o si organizza in intricati arabeschi. Abbandonata la figura umana, trame e oggetti segnano il passaggio verso un linguaggio sempre più rarefatto e rastremato, dove il colore sovente prevale sul segno e sul disegno. La prima decade degli anni Duemila, dunque, scorre all’insegna di una lenta transizione, con balzi in avanti, verso la definizione di un nuovo modo di articolare la pittura, e improvvisi ritorni all’ordine figurativo. La serie intitolata Ascensione (2005-2008), ad esempio, rivoluziona totalmente il precedente approccio compositivo. I dipinti sono ora costellati da una pletora di corpi sferici, di bolle fluttuanti su fondi atmosferici simili a cieli notturni screziati di luminose macchie di colore. Tuttavia, questo nuovo modo, tendenzialmente astratto, s’intreccia sovente con quello vecchio. L’interesse per l’oggetto, per quanto pretestuoso, fa ancora capolino nei dipinti delle serie Interior (2007) e Alla fine del buio (2008), marcando di tanto in tanto quello che appare come un ripensamento stilistico, ma che è invece il sintomo di una varietà d’interessi. Molgani passa indiscriminatamente dall’aerea spiritualità neoplatonica delle Ascensioni all’umbratile viscosità degli interni domestici, peraltro senza avvertire alcuna contraddizione. D’altra parte, uno dei lasciti del postmodernismo degli anni Ottanta che l’artista ha senz’altro accettato è il crollo dello spartiacque ideologico tra astrazione e figurazione. I tempi dell’assoluta inconciliabilità di questi due baricentri della pittura del Novecento sono definitivamente tramontati.
Molgani, come molti pittori formatisi in quel periodo (da Arcangelo a Piero Pizzi Cannella, da Bruno Ceccobelli a Gianni Dessì), trova una personale sintesi nella composizione di pulsioni aniconiche e di tensioni espressioniste. Sintesi che in seguito sfocia nella predilezione per soggetti indefiniti, per luoghi (più che veri e propri paesaggi) sempre più indeterminati e ambigui. Nella seconda decade del nuovo millennio, le Ascensioni lasciano il campo a immagini ancora più volatili, a lattiginose morfologie terrestri e vaporosi empirei stellati che tramutano, quasi inavvertitamente, in ipnotiche costellazioni astratte. Il ritmo delle macchie, delle forme sferiche e aureolate che spesso muovono le superfici dei dipinti di Molgani, evidentemente riprende il piacere ornamentale degli esordi, sublimandolo, però, in una dimensione di pura stupefazione. La cerebralità, forse un po’ rigida degli inizi, sembra quasi svanita, sostituita ora da una gestione più libera e fluida dei pigmenti. Forse persuaso, come Yves Klein, che “i colori sono i veri abitanti dello spazio”, l’artista procede al graduale smembramento di ogni forma e alla simultanea formazione di una dimensione affrancata da ogni riferimento oggettuale. Non ci sono più lampadari o urne (Alla fine del buio), né Apparizioni di animali, né, piante e ninfee d’impressionistica memoria. Tutto cede alla forza del colore che, come sosteneva Kandinskij, “è un potere che influenza direttamente l’anima”.
Basta uno sguardo alle tele più recenti, quelle “senza titolo” dipinte tra il 2015 e il 2016, per accorgersi che è ormai la pittura stessa, organizzata in magmatiche e scivolanti masse di colore, il vero oggetto della ricerca di Molgani. Una pittura scomposta, pulsante, inaspettatamente lirica, date le premesse iniziali, che forse ha ritrovato – come afferma Lorenzo Canova – “fondamenti nobili nelle prime esperienze dell’astrazione storica, in un ritorno che si trasforma in un nuovo principio”[5]. E, tuttavia, è anche la conseguenza di una lunga elaborazione, di un lento processo di affinamento che affonda le radici nel nomadismo stilistico degli anni Ottanta e che, paradossalmente, si dimostra, oggi più che mai, capace di comprendere le forme ibride e aleatorie della pittura contemporanea. D’altra parte, come suggeriva Paul Valéry, “il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà”. Così ha fatto Ugo Molgani, affrontando il problema dell’immagine senza preconcetti e maturando, quasi profeticamente, una sintassi inafferrabile e sfuggente, per molti versi simile a quella che oggi viene rubricata sotto la definizione di “astrazione ambigua”.[6]
Note
[1] Maurizio Sciaccaluga, Ugo Molgani, Lo sguardo di Atteone, Galleria Balestrini, Albissola Mare, 1991.
[2] Mauro Panzera, Ugo Molgani, Un corpo in asse, Galleria Cristina Busi, Chiavari, 1992.
[3] Viana Conti, Ugo Molgani, Nel paesaggio della figura, Galleria Cristina Busi, Chiavari, 1990.
[4] Ivi.
[5] Lorenzo Canova, Costellazioni dello spirito, Aliante edizioni, Roma, 2015.
[6] Tony Godfrey, Painting Today, Phaidon press, Londra, 2014.
Info:
Ugo Molgani. In Between
a cura di Ivan Quaroni
dal 28 ottobre al 13 novembre 2016
Spazio per le Arti contemporanee del Broletto
Piazza della Vittoria, Pavia
Orari: giovedì e venerdì ore 16-19, sabato e domenica 10.30-12.30 – 16-19
Ingresso libero
Chiara Argenteri
Ufficio stampa/Press office
Associazione Pavia Città Internazionale dei Saperi
tel. 338.1071862
E-mail: chiara.argenteri@comune.pv.it