Un mondo prevedibile fa schifo

Leicester

Raramente mi è capitato di leggere un articolo tanto pieno di spocchia e di criptofascismo come quello comparso qualche giorno fa sul prestigioso giornale “The Economist”, che si è preso la briga di commentare la celebrata vittoria calcistica del piccolissimo Leicester nella ricchissima Premier League.
Ah, prima di tutto, l’articolo in questione è questo. Leggetelo, così, per farvi un’idea.
Fatto. Bene.
In soldoni, l’autore del pezzo invita tutti a non prendere la “favola” del Leicester come una cosa positiva. Perché? Perché i fatti non controllabili, poco prevedibili e sorprendenti rovinano gli schemi delle cose. Perché le vittorie degli underdog (gli sfavoriti, sia che si parli di sport, di politica o di altro) illudono i mediocri di potercela fare a loro volta a vivere una favola, che sia di lavoro, di successo professionale, o magari artistico.
L’articolista si spinge addirittura a paragonare la squadra di mister Ranieri all’exploit di Donald Trump, solo perché anche questo era considerato un altro underdog.

Tornando a inizio post, posso solo confermare quanto ho già affermato: da tempo non mi capitava di leggere parole tanto odiose, espresse tra l’altro con pretese di serietà.
Il giornalista dell’Economist si augura – al contrario – un mondo quanto più possibile fatto di cose ed eventi ampiamente prevedibili, dove tutto, disgrazie e miracoli, vengono livellati in favore di una scala di valori fatta di meri calcoli e di freddi numeri.
Paragonare la prevedibilità offerta dalla scienza (per esempio nella ricerca di cure riguardanti malattie gravi) a exploit di altro tipo è chiaramente una sciocchezza, un tentativo di fornire una chiave di lettura illuminata a questo post.

Io sono della scuola di pensiero opposto.
Credo che la storia umana sia fatta di clamorosi “miracoli”, di underdog che hanno sfidato l’impossibile, facendo compiere piccoli ma significativi balzi a tutti noi.
Penso ai primi astronauti e cosmonauti.
Penso a chi scalò le vette più alte, a chi esplorò terre sconosciute, con equipaggiamento di fortuna e senza alcun confortante calcolo di possibilità riguardante il loro ritorno.
Penso alle persone portatrici di handicap, che fino a settant’anni fa venivano considerate come abomini dai sostenitori dell’eugenetica, e che ora compiono imprese sportive spesso impossibili per i “normodotati” abituati al junk food e alla vita da divano.
Sì, penso anche allo sport, a quelle vittorie sorprendenti, ricche di valori storico-sociali, oltre che competitivi. Lo scudetto “operaio” del Verona, gli europei vinti rispettivamente dalla Danimarca e dalla Grecia, Jesse Owens alle olimpiadi di Berlino del ’36, il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle olimpiadi di Città del Messico del ’68.
Anche nel mondo artistico ci sarebbe da fare un lungo elenco di attori, cantanti, scrittori e ballerini diventati delle celebrità partendo dai background più improbabili e sfavorevoli.

Il mondo che si augura l’Economist è fatto forse a misura di androidi, o di vulcaniani, ma non va bene per quello che è lo spirito dell’essere umano, che per natura è incline alla sfida e desideroso di trovare fonti di ispirazione.
O forse c’è un’altra spiegazione a questo articolo: il giornalista che l’ha scritto ha voluto pratica un hobby molto di moda in questi tempi: andare controcorrente. Per farlo ha dovuto attaccare una delle poche cose piacevoli accadute in questo 2016.
Di sicuro è riuscito a cogliere l’attenzione di molti, a cui si accompagna però un coro di solenni pernacchie.

Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi a raggiungere la vetta dell'Everest (1953).

Edmund Hillary e Tenzing Norgay, i primi a raggiungere la vetta dell’Everest (1953).


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