di Pino Farinotti | Nell’inverno del 1914 Charles Chaplin disse a Mack Sennett, regista produttore pioniere, e suo datore di lavoro, che era necessario inventare qualcosa di nuovo, pure in una disciplina nuovissima, come il cinema. Le comiche vivevano per lo più di torte in faccia, azioni frenetiche e di inseguimenti. Occorreva andare oltre. Nel suo film Charlot Richard Attenborough immagina che Chaplin (Downey jr.), in un magazzino di costumi, si guardi in giro. L’azione è suggestiva e metafisica. Si formerà un sortilegio preventivo, si compirà un destino, succederà qualcosa di magico per il mondo: una bombetta si fa notare tremolando; un bastone dal sottile manico ricurvo si solleva sopra gli altri; le grosse scarpe devastate fanno due passetti; una giacchetta stracciata è appoggiata sopra una sedia, così come gli sproporzionati pantaloni che cadono e si fanno notare. Chaplin rovista in un cassettino pieno di baffi e fa la sua scelta. Nasce Charlot. Charlie ha venticinque anni. Il vagabondo naturalmente è muto, e non solo perché lo era il cinema. Chaplin intese sempre la pellicola come qualcosa che apparteneva all’immagine e alla quale la parola non serviva. La parola, invece di aggiungere, toglieva. Un soccorso importante glielo portò Billy Wilder, in Viale del tramonto, quando fa dire alla diva del muto Norma Desmond (Swanson) “… poi ci misero le parole a rovinarono tutto, a noi bastavano gli occhi”. Chaplin difese a oltranza questa scelta, abbondantemente oltre l’irruzione del sonoro. Fece parlare Charlot soltanto nel 1940, nel Grande dittatore. Gli fece fare un discorso ecumenico e retorico. Il grande cineasta era un uomo di immagine, non di scrittura. Appunto. Charlot è un vagabondo, sì un poveraccio, che cerca comunque di agire con classe e bontà. Certo, se è costretto, qualche piccolo trucco lo combina: ha fame e porta via una ciambella a un bambino figlio di ricchi, ma accarezzandolo. Le sue azioni hanno sempre una valenza simbolica, sono trasgressive, ribelli, magari rivoluzionarie. Il suo antagonista fa sempre parte del sistema, che non ti è amico: un funzionario senza umanità che vuole portargli via il suo “monello” o un poliziotto grosso il doppio, che brandisce sempre un manganello. Queste sue indicazioni portarono Chaplin nel mirino di Egdar Hoover gran capo dell’FBI, che lo accusò di comunismo e tanto fece che riuscì a esiliarlo dall’America. Chaplin poi ci tornò, ma il sentimento non era più quello di prima. Comunque Hollywood gli riconobbe un Oscar, più che doveroso, alla carriera nel 1972. Raccontare l’incidenza di Charlot nei tempi e nel mondo diventa .. scontato. Ma “scontato” comporta un’azione strepitosa, trasversale nel tempo, compresa da tutti dovunque. E siccome vai dovunque, le parole non servono, da molte parti non vengono capite. Se dico che Charlot è compreso e porta felicità in tutte le zone dei due emisferi sono sempre nel concetto dello scontato. Mi spingo oltre, anch’io, come Attenborough faccio un po’ di metafisica e dico che il vagabondo avrebbe divertito anche in ere lontane, parlo di antichità, di egiziani, o romani o greci.
Ho ragionato, proprio in questi giorni, intorno a Charlot pensando alla copertina di un mio libro che uscirà a maggio. Cercavo un’immagine, una sola, che rappresentasse tutto il cinema. Alla fine ho composto un cartello di nomination: Rhett e Rossella abbracciati in Via col vento; Gene Kelly che balla sotto la pioggia; il mimo Jean-Louis Barrault sul palcoscenico in piazza di Les enfants du paradis; il cavaliere Antonius Bloch che gioca a scacchi con la morte nel Settimo sigillo; Il Rex che naviga su quel mare di plastica in Amarcord; Laurel&Hardy, in kilt, che raccolgono la spazzatura danzando intorno a un bidone negli Allegri scozzesi; Charlot col suo balletto del pane nella Febbre dell’oro. Le nomination alla fine si sono ridotte a due titoli, uno è “muto”. (da Mymovies.it, 2 marzo 2014)