di Ivan Quaroni
“Questa è la vera libertà: essere capaci di uscire da se stessi, attraversare
i limiti del piccolo mondo individuale per aprirsi all’universo.”
(Alejandro Jodorowsky, Psicomagia.)
Un viaggio può essere un’ottima occasione per stimolare l’immaginario di un artista. Le impressioni, le sensazioni, le esperienze accumulate durante un soggiorno in un paese straniero (ad esempio, il Messico) possono influire sul carattere delle immagini dipinte dal viaggiatore. L’influsso dell’ambiente, delle atmosfere, dei profumi, dei sapori, della particolare qualità della luce di un luogo possono essere decisivi quando l’artista è aperto alle impressioni esterne, quando accantona, per un momento, il proprio ego per fare spazio al mondo. Ma si tratta comunque di un’eventualità singolare, di una circostanza che, come nel caso della fatidica scoperta del colore di Paul Klee in Tunisia, può dimostrarsi fertile per la pittura.
Tuttavia, la pittura è sovente il prodotto di una visione, formata da una congerie di elementi inafferrabili, come memorie, emozioni e archetipi che affollano la mente dell’artista. Una visione è, infatti, un’immagine o un’apparizione che si forma nel nostro cervello, senza l’intervento strumentale degli organi di senso. È un vedere senza gli occhi. Ora, quelle realizzate negli ultimi tempi da Valentina Chiappini, sono opere generate dalla visione. Alcune sono state fatte in Messico, durante un viaggio, altre sono state dipinte in seguito, in Italia. Distinguere le une dalle altre sarebbe impossibile senza l’aiuto dei titoli perché, di fatto, sono tutte il prodotto di un immaginifico scavo nei meandri dell’inconscio o, meglio, il risultato di un affioramento di memorie dalle profondità ctonie della mente, da quel buio giacimento di tracce sepolte e d’indizi rimossi, che costituisce l’ossatura psichica di ogni individuo e, insieme, il suo maggior vincolo.
D’altra parte, l’inconscio è la dimensione psichica che raccoglie tutte le attività mentali (pensieri, emozioni, istinti, modelli comportamentali) che non sono presenti alla coscienza vigile o di cui il soggetto non è consapevole. Eppure, attraverso la pittura, Valentina Chiappini cerca di rendere intellegibili le produzioni del proprio inconscio, costruendo, al contempo, un linguaggio organico, mobile e multiforme, in cui paiono fondersi detriti visivi dell’arte surrealista e spunti dell’immaginario folclorico mesoamericano o della cultura popolare di massa. Diversamente dai surrealisti, l’artista non è, però, interessata a dar voce all’innominabile flusso di capricci e d’immagini oniriche di cui l’inconscio è così prodigo. C’è, nel suo modo di procedere, un’accurata selezione d’immagini, che risponde alla necessità di portare alla luce l’impatto traumatico del vissuto, allo scopo di ripristinare l’integrità e l’innocenza perdute.
Non si può comprendere il racconto pittorico di Valentina Chiappini senza fare riferimento ad Alejandro Jodorowsky, scrittore, attore e regista cileno, fondatore della psicomagia e della metagenealogia, due pratiche terapeutiche, che restituiscono all’arte e all’immaginazione la funzione curativa che esse ricoprivano nelle civiltà tribali, primitive e sciamaniche. L’artista è, infatti, da qualche tempo impegnata in un percorso iniziatico (quello metagenealogico, appunto) che consiste in un iter di riscoperta, e quindi di trasmutazione, delle proprie radici familiari. Un percorso che essa compie anche attraverso la pratica pittorica, la quale diventa, così, un territorio di esplorazioni e scoperte non solo formali e linguistiche, ma finanche esistenziali e spirituali.
Uno dei cambiamenti più evidenti nella recente produzione dell’artista, e di cui questa mostra è una palese testimonianza, consiste nel progressivo avanzare delle immagini a discapito del testo, che sotto forma di frammenti lirici, frasi, motti, parole chiave, aveva, fin qui, ricoperto un ruolo importante nella sua ricerca. Nelle ultime opere il significato delle parole sbiadisce, diventando perfino evanescente. I significanti assumono sempre di più il carattere di moduli visivi, meri sintagmi di un alfabeto pittorico in costruzione. Prevalgono, invece, le immagini incompiute, le figure appena abbozzate, le anatomie mutile e le fisionomie incongrue, che adombrano i contenuti dell’oscuro magma subcosciente. Forse l’artista ha recentemente compreso che, come sostiene Jordorowsky, “le parole forgiano la realtà, ma non sono la realtà”. Per questo, ha iniziato a caricare le immagini di una nuova autonomia, conferendo loro una maggiore forza iconica, finalmente slegata dal cascame lirico e procedendo più convintamente in direzione di un linguaggio più sintetico e rastremato.
Con la sua tipica “scrittura” febbrile, piretica, Chiappini delinea un campionario di figure e archetipi attraverso cui si perpetua una pletora di totem e tabù. Nelle carte e nelle tele dell’artista, infatti, affiorano personaggi zoomorfi (Sick, Sick, Sick; Reborn Convivio; Nude; Sei un branco di animali dentro una persona), inquietanti sdoppiamenti gemellari (Bipolar Nice Trip; Two of us; Due), anatomie tronche o ipertrofiche (Elevation; Rain Inside; Echo con mi sangre; Fly Away; Ut Pictura Poesis), esemplari incarnazioni di un immaginario sotterraneo, popolato di personali divinità e privatissimi demoni in perpetuo conflitto tra loro. Così, mentre la pratica metagenealogica permette all’artista di rintracciare gli episodi cardine del proprio dramma familiare, la pittura ha la facoltà di liberare gli aspetti
Per Valentina Chiappini la pittura è uno strumento d’indagine interiore e, insieme, una disciplina alchemica, che consente di trasmutare la realtà dei ricordi e, infine, distillare l’angelo dal demone. In tale prospettiva, il contenuto drammatico dei suoi dipinti assume un carattere strumentale e può essere interpretato come l’effetto collaterale o, più precisamente, l’epifenomeno residuo di un processo di catarsi magica. Sembra, infatti, che l’artista usi la pittura come, secoli prima dell’avvento della psicanalisi, la usavano i primi uomini. Vale a dire, per conoscere e plasmare la realtà, propiziando gli eventi fausti o scongiurando le calamità. Perciò, si può affermare che, proprio come gli atti psicomagici di Jodorowsky, i dipinti dell’artista abbiano una qualità apotropaica, in grado di affiancare al valore estetico, proprio della cultura contemporanea, l’antica proprietà di esorcizzare gli influssi maligni con il potere attivo dell’immaginazione. Una facoltà che, in passato, gli artisti condividevano con gli sciamani e i guaritori.