Giacomo Vanetti - "MUTATIONS", polaroid da video, stampa digitale 40x40cm, 2010
Potremmo chiamare la produzione di Giacomo Vanetti (1974; vive e lavora fra Varese e Milano) “fuzzy photography”: come la musica noise, ha il potere di evocare un’idea di distorsione. Fuzzy è infatti un termine inglese che sta a indicare l’indistinto, lo sfocato, ciò che si dilegua. Perfino nel territorio angusto della Logica esiste la categoria, appunto, della Logica Fuzzy.
L’opera del Vanetti richiede che noi osservatori c’impegnamo in qualche modo: non è che in questo caso si debba imparare a guardare un quadro, ma certamente abbiamo a che fare con un “incontro”, fra noi e l’opera d’arte, che ci impegna in una relazione non facile.
Come in musica occorre saper percepire la melodia che si agita al di sotto della distorsione, così Vanetti ci invita a trovare la bellezza celata dietro un’immagine dai contorni sfumati. Una bellezza fuzzy, appunto.
E la tecnica adottata rafforza quest’idea di distorsione: passaggi su passaggi, anche l’attraversamento dei mezzi espressivi (foto/video/e ancora foto) durante la fase di lavorazione dell’immagine. Il risultato finale è dato da immagini scabre, mai veramente fissate nell’eterno come quando si dice che con la foto s’immortala un’immagine.
“Immagini isolate, abbandonate, […] per permettere a chiunque di comprenderle senza possibilità di pensarle altrove, se non nella propria mente”, mi disse il Vanetti. Anche se l’autocoscienza prima è la stessa di che le foto le ha fatte. In una temperie storica come l’attuale, identificata da più parti nella “società dell’immagine”, è bello, quasi divertente, vedere immagini fantasmatiche che trovano ragion d’essere nella loro stessa negazione. Fa uno strano effetto. Come fluttuare nell’acqua.