Da un’idea del fotografo Antonio Biasucci e del regista Mario Martone, scaturisce la personale di Salvatore Vitagliano dal titolo Icone, attualmente in mostra al Museo Madre di Napoli, dove resterà fino al 5 dicembre.
Da un’idea, si dice. A buon diritto, indicando i curatori. Ma – se permettete – una volta tanto, è nata prima la gallina che l’uovo, ossia: prima nasce, come una lucida cancrena incantata, la serie dei ritratti di Vitagliano; poi, la culla della madre – pardon: del Madre, ossia le tre salette del mezzanino che accolgono l’opera del pittore originario di Valle Caudina (1950). Ed è una genesi piuttosto remota.
Se io fossi un critico d’arte politically correct, non interloquirei citando a destra e a manca curatori e colleghi. Ma non sono né politically correct, né un bravo ragazzo; né, forse, un critico. Ed allora, mi diverto un mondo a proporre un corto circuito di articoli e scritti che, a distanza inconsapevole, sembrano divergere – e per carità: ognuno può dire la sua.
Da un lato, sul website del Madre il curatore Mario Martone scrive: “Enigmi spirituali, senz’alcun dubbio, guardando non a Dio ma all’uomo, guardandolo in volto, fissando i suoi occhi, toccando le sue mani”. Dall’altro, leggo su Repubblica un articolo di Renata Caragliano che commenta: “Velàzquez, Antonello da Messina o Sebastiano del Piombo ritraevano notabili, personaggi riconoscibili o alla cui identità si poteva risalire. Il contrario di quello che fa l'artista napoletano. Le opere pittoriche di Vitagliano funzionano come una porta tra due realtà: una è quella rappresentata e visibile, l'altra un universo parallelo che si apre all'invisibile, all'ignoto. Il tempo sembra essersi fermato ma in realtà i volti anonimi si muovono nella trama pittorica quasi come fantasmi”.
Purtroppo questo è quanto succede quando si citano a sproposito artisti del passato. Diversamente da quello che cerco di fare in questa rubrica. In cui – chi legge i precedenti articoli, se ne renderà conto – per quanto possa apparire un azzardo il collegamento diacronico con cui da un contemporaneo traccio una linea invisibile verso un artista del passato, le fiches critiche non sono giocate a casaccio. Francamente, invece, allineare Velàzquez, Antonello da Messina e Sebastiano del Piombo, come fossero un sol mazzo, mi sembra appiattire nella casualità del genere comune – il ritratto – declinazioni che in realtà sono ben diverse; e solo ad una di queste mi sentirei di collegare Vitagliano, col paracadute di un intermediario d’eccezione: Francis Bacon. Pronti al salto mortale all’indietro?
Sebastiano del Piombo, leggo. In effetti è noto così: ma ricordare che il vero nome era Sebastiano Luciani, non è questione di pedanteria, ché “del Piombo” è lo pseudonimo con cui è passato alla storia dopo aver ottenuto la carica pontificia del piombatore delle bolle papali, nella Roma post-sacco (1527), capitale sotto shock da cui s’irradia la diaspora della maniera tosco-romana dopo le imprese di Raffaello nelle Stanze Vaticane e di Michelangelo nella Sistina. Non sorprende che l’artista di origini venete degradasse – perché bisogna ammetterlo: fu una deriva di qualità poco esaltante – su di una ritrattista episodica e non particolarmente illuminata, intervallata dai primi vagiti di uno stile controriformato molto comunicativo ma poco espressivo – salvo sdoganamenti tanto di moda nella storia dell’arte.
Ma già ridurre Antonello da Messina ad un ritrattista di “notabili”, agli antipodi rispetto alla pittura dell’enigma di Vitagliano – “enigma” è una parola dell’articolista di Repubblica – mi sembra un pugno nell’occhio assestato male. L’acribia tutta fiamminga di Antonello, ma genuinamente mediterranea e già tutta italiana nei copricapi che girano prospetticamente alla Piero della Francesca, non mi sembra connotare un ritratto del “già detto”, dell’informazione sociale ad ogni costo. Questo è un tradimento critico bello e buono. Gli sguardi di sottecchi, certe occhiate in tralice su fondi monocromi, la voluta ambiguità delle espressioni – certo, calibrature spaziali: ma non solo questo – serbano, a mio avviso, una voluta cripticità che in parte contraddice la funzione “sociale” della commessa. Ed infatti, non è problema solo documentario l’enigma del “chi sia il personaggio ritratto?”: considerando che in ritratti di Lotto o di Bronzino ci si adopera, al contrario, in ogni modo per dire chi sia il protagonista del dipinto, o almeno, quale il suo rango, quale la sua storia. Antonello e Vitagliano non avranno granchè da spartire, ma sull'enigma convergono.
Altra cosa, ancora, sono le rasoiate di Velàzquez: pintor de cámara, pittore cerimoniere, ma sufficientemente autonomo intellettualmente e scaltro pittoricamente per stralciare dall’ufficialità dei ritratti quelle visioni lancinanti ed episodiche che ne fanno un ritrattista dell’umano, troppo umano.
Un passo indietro, uno dei modelli dello spagnolo. Nel ritratto di Paolo III Farnese di Tiziano (Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte), il Pontefice si avvinghia, grifagno, al bracciolo del proprio seggio, assai similmente al vizioso in rovina – Baudelaire – che ghermisce il seno martoriato di un’antica puttana. Dynasty in rosso, quella dei Farnese: poca ufficialità, molta putrescenza del potere.
Un passo in avanti: il vento d’aria compressa che strazia di linee urlanti e percorsi squagliati di colore i ritratti di Francis Bacon, dipintore di umanità bestiale, come porci che sudano lardo e sangue, anche sotto vesti azzimate da Papi e borghesi. Come quel Papa urlante (Screaming Pope, 1953), che l’irlandese rianima in un grido munchiano che il Ritratto di Innocenzo X di Velàzquez (1650), preso volutamente a modello, pareva aver strozzato nelle labbra serrate sotto lo sguardo vigile, su quello sfondo in cui si esauriscono le tonalità del rosso come tutti i gradi di un’avidità disperatamente riarsa.
L’ultimo passo, e siamo a Vitagliano. Prendete alcuni dipinti dai titoli sintomatici esposti a Napoli: “Vi nutro”, oppure “Vi ascolto”. Fanno il paio benissimo con Velàzquez (“Vi guardo”) o Bacon (“Vi assordo”). La giuntura è nel farsi organico del ritratto, nell’immagine che si anima di un dinamismo intimo che sfigura e raffigura; e ad un tempo, nell’acquisire la carnalità di un’esistenza poetica che travalica la rappresentazione descrittiva, sconfinando nell’ineluttabilità del dialogo. L’enigma dell’uomo è un enigma di carne: di occhi che guardano, di ugole che traballano, di mani che toccano. Un dipinto come Enrico d’Austria (2000) di Vitagliano rende bene l’idea dell’icona come realtà affiorante, non come racconto ecfrastico: l’ectoplasma è materia altisonante, non perché abbia il nome pomposo di un dignitario, ma per l’emersione prepotente del segno che si dibatte tra la liquefazione ed il rigurgito cremoso; per le orbite che si sono fatte spuma ai confini del lido pittorico; per lo sfondo dove la grafia gestuale sembra aver trasportato l’enfasi di Franz Kline sullo sfondo, già percosso da occasionali straripamenti noir dell’Innocenzo X di Velàzquez – ma perché lo spagnolo insisteva sulla mano sinistra del pontefice con inspiegabili profilature in nero?
Questa è la declinazione contemporanea di Vitagliano: l’emersione segnica così materica, così vitalmente corporale dell’icona, da trasfigurare l’immagine in umanità sommersa. O riemersa?