Tutti i corpi del corpo (o quasi) 2. Il Transumano | Roberto Messina

 

Tutti i corpi del corpo (o quasi) 2. Il Transumano

di Roberto Messina

 

 

 

“ La fase transumana si caratterizza per il tentativo di valicare alcune fondamentali limitazioni, quali le non incrementabili capacità intellettive e la morte, per il superamento di quelle caratteristiche che attualmente definiscono il concetto di umano, dei limiti più evidenti dell’evoluzione, sin qui naturale e animale, della specie. Nell’era postecnologica o virtuale, il soggetto è un elemento indistinguibile di un unico sistema uniformante che ha inglobato in sé oggetti e soggetto, trasformando quest’ultimo in una sorta di terminale di reti multiple ”.

Con queste parole, Francesca Alfano Miglietti, una delle più attente indagatrici delle fenomenologie del corpo legato all’arte nel suo Identità mutanti, definisce il complicato connubio corpo/arte/tecnologia.

In effetti, per potersi addentrare nel mondo astruso e trasversale di un corpo che non è più solo in carne ed ossa, che contempla elementi di protesica, microchip e ingegneria genetica; che si compone di un’estetica trasversale e spesso eticamente off limits, bisogna considerarlo forse come il frutto di un inevitabile processo, speculare all’impennata tecnologica di questi ultimi decenni. L’epoca transumana, o del Transumanesimo, come la definiscono alcuni studiosi del settore, è per la prima volta quella che avvicina, che unisce in squadre di lavoro, esperti di bio e nanotecnologia e artisti, poiché entrambi si pongono il medesimo quesito: Quale orizzonte della corporeità si prospetta in rapporto all’epoca tecnologica? Le due categorie cercano la risposta, l’una funzionale, l’altra estetica; ciò che persegue questa seconda, che è quella che maggiormente ci interessa, risulta affascinante, suggestiva..

Probabilmente, i germi, nonché la definizione stessa di Transumanesimo, si possono individuare nelle teorie dello scrittore e genetista britannico Julian Huxley, quando nella seconda metà degli anni ’50, preconizza un’umanità sempre più affine e sensibile alle sue prossime potenzialità tecnologiche. E’ invece verso la fine degli anni ’80, che il termine inaugura in America una serie di vere e proprie esperienze d’indagine tecnologica dal duplice aspetto, quello genetico e quello artistico sul corpo, divenendo questi gli ingredienti per una vera e propria Filosofia del Transumano; tra i corollari più concisi troviamo quello del filosofo Max More che parla del Transumanesimo come di "una classe di filosofie che cercano di guidarci verso una condizione postumana”. Anche in ambito cinematografico poi, certa filmografia, anche abbastanza trascorsa, ha precorso i tempi quando ipotizzava un Frankenstein frutto dell’innesto carne/metallo; nelle sequenze di Metropolis, o in quella più recente di Tetsuo, di Brazil, di Crash, la condizione corporea è fragile e mutevole, la pelle suturata è simbolo di modificazione tecnologica; di interfaccia, ci appare già davanti il solito scienziato dalla brama delirante di mettere in pratica le sue supposizioni-limite al corpo..

In Italia, quella dell’indagine sul corpo mediante l’utilizzo di tecnologie, è una pratica estetica che ha avuto il suo acme intorno agli anni ’90 quando, su riviste specializzate del settore come Virus o Flesh Out per citare forse le due maggiori, l’estetica ruotava più che altro intorno al concetto di Mutazione; a mio giudizio forse in maniera troppo disinvolta, relegando oltretutto le pratiche artistiche che non fossero state la New Body, come superate e obsolete.. Di quel periodo, che dimostrò di essere, come già detto, una tendenza concomitante agli esperimenti tecnologici, quali clonazione (ricordate l’esperimento della pecora Dolly?) o mappatura del Genoma umano, tutt’oggi permangono forti interrogativi su quanto l’uomo possa, debba spingersi nella sua auto-modificazione; fino a che punto certe pratiche possano effettivamente considerarsi Arte. Quest’ultimo in particolare, è un quesito puntualmente ricorrente, specie nella pratica artistica contemporanea.

L’esperienza transumana, è frutto del tentativo di superamento delle più tipiche ‘barriere’ umane; quelle della percezione dei sensi, del progressivo invecchiamento e deterioramento organico, e non ultimo, della ricerca di un corpo nuovo, fuori dalle gabbie dell’identità, del nome e cognome, nomade e camaleontico, consapevolmente disarmonico e sessualmente neutro.

Il concetto di neutro, non è ad esempio per Roland Barthes sinonimo di neutralizzazione. Durante l’anno accademico 1977-78, presso il Collège de France il noto saggista dichiara: “Il Neutro non corrisponde necessariamente all’immagine piatta, ma può costituire un valore forte, attivo”. In L’arte e la sua ombra l’autore, Mario Perniola, coglie nelle parole di Barthes un’assonanza verso la differenziazione dei sessi affermando a sua volta: “Entro nel neutro quando mi accorgo che l’opposizione posta dall’opinione corrente (per esempio quella tra maschile e femminile) è inadeguata per descrivere la mia esperienza, non perché sia sorta una possibilità di conciliazione tra i due termini, ma perché è intervenuto un terzo termine (per esempio il sentire di una sessualità inorganica) che è differente rispetto al modo in cui la sessualità è stata pensata finora”.   

Il corpo transumano allora, non vuole essere quello dell’Uomo di Vitruvio, adesso cerca estensione nello spazio circostante con ausilio tecnologico e protesico; reca quando è inevitabile, simbologie di un suo sconfinamento. L’artista che opera per l’estetica transumana, naviga tra il maschile e il femminile o meglio, alla ricerca di un ‘terzo sesso’ da raccontare mediante nuovi corpi.

Quelli dell’artista olandese Inez van Lamsweerde, sono prototipi di corpi ibridi, concepiti secondo la dicotomia di un corpo altro, che non prevede le peculiarità del sesso, che si basta da solo. Nelle opere degli anni ’90 in particolare, la fotografa e videomaker realizza immagini di corpi nei quali risulta effettivamente arduo definirne il sesso, dato che sono questi, pensati per starne esattamente a metà. Anche quando fotografa delle bellezze al femminile, le concepisce laccate e innaturali, quasi fossero manichini da vetrina; senza pori e orifizi.

In questo senso, ma di un livello più esasperato, appaiono invece i corpi degli artisti Aziz+Cucher. Mediante elaborazioni digitali su supporto fotografico, il duo americano crea dei corpi letteralmente chiusi, tappati. Vengono totalmente a mancare gli organi di senso della comunicazione interno/esterno e viceversa. Senza disporre di occhi, narici, bocca e ogni genere d’orifizio, questi corpi sono destinati a un oblio esistenziale senza luogo e senza tempo, mancando oltretutto le caratteristiche che ci identificano (rughe, taglio degli occhi, della bocca, dentatura) anche l’età di queste creature non è facilmente definibile.

La fase transumana del corpo diviene come già detto, luogo di ibridazione e interscambio. In quest’aspetto la tecnologia e le sue possibilità di estensione possono essere multiformi e, inaspettatamente il corpo, appare più versatile di quanto non si creda, nella ricezione protesica.

Jana Sterbak, artista canadese, è nota soprattutto per i suoi interventi di confinamento del corpo. In Vanitas, Flesh Dress for an Albino Anoretic del 1987, l’artista è seduta per terra indossando un orrendo vestito di carne, chiara metafora questa, della morte e della presenza di un corpo estraneo sul suo; l’identità dell’artista, non è allora totalmente definita; di un corpo tecnologicamente confinato, possiamo parlare invece in Remote Control del 1989, dove l’artista indossando una struttura simile a una gonna di metallo che la tiene a mezz’aria, controlla tramite una scatola-comandi la sua direzione.

Anche l’indagine compiuta dall’artista tedesca Rebecca Horn, produce uno sfalsamento identitario, poiché i suoi ‘vestiti’ corporei, hanno funzione di modificare, ampliando talvolta o confinando in altre, il corpo stesso. Quello offerto da Rebecca Horn, è un postcorpo delicato e sfuggevole, nevrotico e psicologico; un corpo che mira ad evadere dal suo precedente Sé. Mediante l’ausilio di metallo e piume (gli opposti per eccellenza), e di sofisticati macchinari, l’artista procede sistematicamente a una decorporeizzazione che sfocia in simbolismi dell’innesto uomo/macchina. La sua particolare attenzione poi, per il vestiario da ballerina di danza classica o per quello da Moulin Rouge, rende lo scenario ancor più straniante.

Mediante videoproiezioni 3D su supporti antropomorfi invece, lo statunitense Tony Oursler propina acide sostituzioni, sinonimi trasversali del corpo. Le sue creature, posseggono un DNA da altro pianeta; sono esistenze a sé che ricalcano solo lontanamente le nostre fattezze. Ciò che inquieta lo spettatore davanti alle sue opere, è la sensazione che queste siano vive perché parlanti, ammiccanti e sorridenti. I manichini di Tony Oursler trasmettono una straniante inadeguatezza al contesto nel quale si trovano, ma ricalcano in modo grottesco le nostre fattezze, la nostra prossemica.

Si può affermare allora, che il corpo sociale rappresenta nell’epoca del too much information, un contenitore, un database che elabora e rimanda dati con ritmo frenetico perché costretto a rapportarsi alla velocità di ricezione. Ne deriva uno sfinimento del feedback, un comportamento spesso più vicino a quello di un macchinario che non all’umano. Il confine neurale tra sinapsi e microchip non è più certo, è forse sovrapponibile; assolvendo alle medesime funzioni, il corpo e la macchina si compenetrano. L’epoca postumana è probabilmente quella di una tecnologia inaspettata, più soft e desiderabile di quanto non immaginavamo. Questo sentire inorganico ci pone di fronte a possibilità molteplici ed estensibili. Straordinariamente personalizzabili.     

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