Di Giuseppe Mendolia Calella
La condivisione è per molti che vivono in un sistema come un anatema o un rebus irrisolvibile, per altri la condivisione è un momento di crescita (retorico a dirsi) che tempra nelle scelte, che allena la testa.
Più difficile ancora è vivere in un sistema dove i dettami, le logiche e i paradigmi compongono mere forme innaturali.
Risulta assai complesso allora, decidere di vivere in un sistema ma scegliere la condivisione; non si tratta di esaltare chi sceglie di condividere, si tratta di capire perché si sceglie di condividere! Discorso a parte va fatto (e probabilmente è anche un valore aggiunto) per chi scegliere di condividere tutto e di farlo nel sistema delle arti: aggrovigliato per antonomasia e stratificato da una meccanica priva di una formula ordinata.
Incontro i “Fare ala” un gruppo (anche se io preferisco definirli “collettivo”) composito di giovani artisti palermitani che spinti dal desiderio di condivisione si arrampicano con slancio verso il “fare”- insieme ancor più coraggiosi nello scegliere di “Fare”- arte.
Ci raccontate in breve la vostra storia? Perché un gruppo?
E’ stato tutto molto naturale e in certa misura casuale: un confluire di energie, di linguaggi diversi, di storie personali e di piccoli strani incontri. Era l’autunno del 2009 quando cominciammo a discutere timidamente tra e durante le lezioni in accademia e, anche se allora non potevamo saperlo, quei balbettii iniziali e interstiziali segnavano l’inizio di un dialogo mai interrotto tra studenti francesi, spagnoli e italiani che andava tessendo quella rete di relazioni, di testi e di affetti che ha segnato il nostro percorso artistico comune. Percorso inaugurato da un impercettibile slittamento pronominale dall’io al noi: l’enunciazione alla seconda persona plurale, del resto, era l’unica possibilità offertaci dalla lingua per un’esistenza collettiva. Ben presto ci scoprimmo a fare, scrivere, progettare, dipingere e quant’altro sotto l’egida del pronome fatale, salvo accorgerci, poco dopo, che il tentativo di inclusione operato dal noi, aveva costruito, e al contempo estromesso, un voi. Forse non è casuale che una buona parte della nostra ricerca, in seguito a quella scoperta, abbia dato voce all’esigenza di problematizzare e sabotare le conseguenze del diktat pronominale che inscenava uno spartiacque linguistico, (e come tale molto serio), tra i due domini. Eppure, già prima della riflessione su quel limite, la scelta enunciativa originaria aveva dato luogo ad un noi di per sé bizzarro ed atipico. Un noi impaziente di sconfinare, curioso di estendersi e conoscere, determinato ad includere, in barba anche alla lingua, abbondanti pezzi di voi. Inoltre, pur avendo seguito un percorso non programmato e del tutto spontaneo, la costruzione di un noi inclusivo e l’approdo a un’idea di collettivo aperto scaturivano da un intento che vorremmo sottolineare e che ci appariva chiaro sin dall’inizio: resistere in modo critico e al contempo sopravvivere, attraverso la costruzione di una rete relazionale fluida ed inclusiva, ad un sistema che ci appariva rigido e poco orientato al dialogo e alla condivisione. Rete che, inaugurata la prima mostra alla Torre di San Nicolò, e, successivamente, varie altre sia in Italia che in Spagna, cominciava a mostrare i suoi tratti con maggiore chiarezza: un luogo di riflessione collettiva sul ruolo dell’arte, un’officina dove poter sperimentare sia nuovi linguaggi che nuove forme di dialogo con il sociale e la dimensione urbana. Un luogo, soprattutto, fondato sulle relazioni.
Perché Fare Ala?
Se la scelta del nostro nome si deve ad un episodio giocoso e si colloca quindi nella dimensione del casuale e del ludico, l’espressione in sé, ormai desueta in italiano e derivante dal lessico militare romano, presenta elementi semantici sorprendentemente vicini al nostro modo di esistenza : “scostarsi leggermente per fare spazio a qualcuno che passa”: ci sembra un bel ritratto, casualmente conforme, nella nostra interpretazione, a quell’idea di collettivo aperto e sempre pronto a cambiare forma in base agli stimoli esterni, a scostarsi appunto, abbandonando pose e definizioni statiche. L’altro nucleo semantico, trae origine invece da una serie di giochi di parole e si collega, in un intreccio di significanti e significati italiani e spagnoli, all’idea di volo: “hacer ala” e “fare ala” allora potevano significare “despegar”, decollare, prendere il volo, preparasi al viaggio, non senza riferimento alla nostra imagine/simbolo, il logo che rappresenta due mani nell’atto di mimare altrettante ali pronte a spiccare il volo. Tuttavia, i due nuclei di significato sono stati trasformati gradualmente da nuove sedimentazioni semantiche con un’operazione “da paguri” che potremmo chiamare, considerando lo spazio offertoci da un significante in disuso, occupazione semantica di un significante semi-abbandonato. Eppure non di significati altrettanto stabili abbiamo riempito l’espressione usurpata alla sfera dei belli romani se, (da un punto di vista interno per lo meno), i nuovi significati ci appaiono tutt’altro che univoci, ma piuttosto instabili e soggetti a continue, temporanee polarizzazioni di senso. Ma se nella nostra percezione il significato dell’espressione cambia al ritmo dei mutamenti relazionali che ne determinano indirizzi sempre nuovi e mai definitivi, ci chiediamo quali nuclei semantici abbiano invece avuto la meglio nella costruzione sociale del significato di Fare Ala che è quello veramente importante e che solo un esterno potrebbe cercare di raccontarci.
Siete tutti giovani e con esperienze formative e culturali diverse … come conciliate tutte queste cose in un unico risultato?
Sì, alcuni di noi hanno una formazione extra-accademica e percorsi personali molto differenti. Crediamo che, lungi dal porsi come problema, la multidisciplinarità abbia rappresentato il punto di partenza per una riflessione collettiva sulla parzialità dei singoli apporti teorici, oltre che un’occasione di arricchimento e di moltiplicazione dei punti di vista e degli stimoli creativi. Da questa consapevolezza derivano molte caratteristiche che si connettono anche alla questione del risultato cui fai cenno: punti di partenza lontani e non necessariamente convergenti, integrazione concertata delle istanze soggettive in un processo creativo collettivo che non annulla ma esalta e trasforma le specificità individuali, progetti di lavoro che prevedono regole di realizzazione condivise e sempre suscettibili di revisione. Il risultato, d’altro canto, non è mai stato la nostra preoccupazione principale: l’eterogeneità degli apporti all’interno di una cornice discussa e decisa coralmente e la puntuale consonanza tra il ritmo di trasformazione dei progetti e quello del fluire imprevedibile delle relazioni, ha sempre rappresentato una dimensione immensamente più stimolante. Niente di più lontano da un risultato in senso tradizionale: a noi interessa il processo di creazione collettiva, le dinamiche enunciative più che l’enunciato, il divenire fatto di continue deviazioni, moltiplicazioni, illuminazioni, ripensamenti e deliri creativi. Un processo descritto dal sovrapporsi e dal complicarsi di piani differenti in uno spazio mobile e senza centro.
A mio avviso c’è tra voi una matrice internazionale molto palese, e al contempo un’internazionalità che vi spinge a operare nel locale con una forte propensione verso l’esterno … è così?
Sì, forse si tratta di due aspetti della stessa propensione verso l’esterno. Argomento per noi delicatissimo in quanto luogo non da cui attingere, ma verso cui espandersi e verso cui tendere. Fatta eccezione per l’inconciliabile, o il temporaneamente inconciliabile, qualsiasi entità esterna è stata un possibile punto di connessione e di relazione o, al limite, un potenziale elemento “interno” di Fare Ala. Se continuiamo a concedere validità all’opposizione interno/esterno è perché ci affascina molto l’idea di quella tensione dialogica tra due o più punti resa possibile da una loro distanza: qualunque sia l’esito del dialogo, è per noi interessante che esso possa comunque iniziare e dar luogo, inevitabilmente, ad una trasformazione e, in ogni caso, ad un arricchimento reciproco. L’internazionalità cui fai riferimento è per noi originaria: l’”esterno” e l’internazionale sono stati protagonisti della nostra genesi nel 2009 e tuttora parte irrinunciabile del flusso di pensieri, di affetti, di azioni che ci rendono ancora vivi e in qualche modo riconoscibili a noi stessi. E allora, la costruzione di una rete transnazionale non è stata semplicemente una necessità dettata dalla distanza ma anche un tentativo di ricodificare le relazioni e le modalità di comunicazione con una parte di noi che esterna non è mai stata. Nondimeno, dopo la diaspora post-erasmus e la formazione di nuclei Fare Ala a Murcia, Alicante, Bilbao, Siviglia, e, recentemente a Londra, i nostri tentativi di sperimentare intorno al limite tra interno ed esterno si sono rivolti con rinnovata intensità verso il locale, lanciando, con frequenza crescente, proposte di collaborazioni con altri artisti e cercando di indagare attraverso il dialogo, il gusto per la scoperta dell’altro e il confronto,nuovi mezzi per problematizzare o ridisegnare, per quanto possibile, quel limite.
C’è stato un momento importante che ricordate come di svolta in questi anni?
Aumentando le connessioni, la probabilità che le cose seguano percorsi non previsti aumenta vertiginosamente: l’imprevisto, già da molto tempo, per noi è quasi routine. Pianificare in modo rigido, d’altro canto, non avrebbe molto senso : sarebbe più o meno come pianificare o strutturare a priori una relazione di amicizia o d’amore. Una serie di microsvolte costellano la nostra quotidianità ed incidono profondamente sulla vita collettiva favorendo una ritualizzazione dell’imprevisto che ci ha resi, in qualche modo, quasi assuefatti al cambiamento. Certo, alcuni momenti importanti si elevano tra gli altri in quanto generatori di nuovi percorsi e di nuove fasi. Ad esempio, il nostro primo workshop con performances musicali di Gianni Gebbia e Alessandro Bazan, lavori estemporanei eseguiti a più mani e azioni performative di varia natura suggerite dall’intorno spaziale e sociale, inaugurava la tendenza, poi consolidatasi, a uno spiccato sincretismo e apriva a nuove sperimentazioni legate al dirty e free mode. Del resto, il consolidarsi della tendenza all’uso di linguaggi più disparati, (dalla videoarte alla street art, dalla mail art alla pittura, dal disegno alla performance ecc.) e alla loro continua contaminazione ci lascia spesso stupiti di fronte ai tentativi di etichettare il nostro lavoro in modo univoco e semplicistico. Tornando all’oggi non possiamo non pensare alla mostra IOSIAMO/santachiara, ancora visitabile all’oratorio Santa Chiara fino al 19 febbraio. Al di là del wallpainting dal titolo “il germoglio dell’altro” o meglio sarebbe dire, prima e attorno al wallpainting inteso come risultato, vogliamo ricordare come l’esperienza all’oratorio ha dato inizio ad un complesso percorso trasformativo ancora in atto. Un percorso scandito dall’intrecciarsi di narrazioni, gesti e rituali relazionali tra corpi parlanti e magicamente sospesi in un paradossale sdoppiamento tra il vissuto raccontato e immaginato e quello messo in scena sul muro, (l’edificio pieno di vita che divenne supporto per la rappresentazione di quella vita). Tutto ciò ha rappresentato esperienza trasformativa dal carattere palesemente processuale e relazionale tutt’altro che conclusa. Nulla è più uguale da allora: né noi, orfani di una quotidianità sociale che ci ha profondamente cambiati, né probabilmente le persone che hanno vissuto con noi quei lunghi giorni e con le quali prevediamo di continuare il dialogo con nuovi progetti, né, infine, lo spazio, testimone cocciuto e vivo, anch’esso, suo malgrado, vistosamente e irrimediabilmente mutato.
In questa fase della vostra ricerca su cosa state concentrando la vostra attenzione? Che progetti ci sono in cantiere per i prossimi mesi e per l’anno nuovo?
E’una fase molto complessa e ricca di occasioni di confronto e progettualità. Nel turbolento avvicendarsi di idee, discussioni, proposte e nuove riflessioni, stiamo elaborando, tra le altre cose, un nuovo progetto di mail art e riflettendo sulle possibili evoluzioni di quella linea di ricerca che ci accompagna sin dai tempi della formazione del collettivo e di cui è testimone la fanzine. RIH2OME è un progetto di mail art ancora in gestazione dove vanno confluendo una serie di riflessioni su aspetti in parte già affrontati durante il nostro percorso ma secondo nuovi punti di vista: la sperimentazione su quel territorio di confine tra interno ed esterno di cui parlavamo prima, il non facile dialogo tra impostazione dicotomica e rizomatica e la questione della spazialità. Per quanto riguarda la fanzine, invece, luogo sinora in certa misura mimetico delle mutevoli relazioni interne oltre che momento divulgativo di idee, immagini, testi e suggestioni, si va profilando, dopo la recente apertura trasversale ad altri artisti, una nuova forma di pubblicazione più orienta allo scambio e alle collaborazioni, anche internazionali. E poi riflessioni sul futuro del gruppo, nuove mostre, nuovi luoghi, nuove relazioni: forse tra qualche tempo, rileggendoci, ci accorgeremo con stupore che tutto, inaspettatamente, sarà già mutato. Rivolgendo l’attenzione alla realtà palermitana, infine, non possiamo non fare cenno alla grande mobilitazione intorno alla riflessione sul bene comune e la riappropriazione degli spazi pubblici vietati come i cantieri culturali della Zisa, cui stiamo attivamente prendendo parte insieme ad un nutrito gruppo di artisti ed altri operatori culturali.
Cosa pensate dell’arte contemporanea siciliana?
Non possiamo che fare qualche riflessione e qualche augurio su quel mondo dell’arte contemporanea che conosciamo meglio e cioè quello palermitano. Cominciamo con gli auguri che di questi tempi non guastano. La (ri-)costruzione condivisa di un sistema coeso e a partecipazione allargata, più equo e sensibile ai mutamenti, che sappia opporre una valida a forte alternativa a un’idea di cultura e di arte come estemporanea consumazione di eventi irrelati ed episodici, potrebbe essere un primo scenario che sposa il nostro augurio. Eppure un tale scenario presuppone una lunga fase di confronto edificante tra artisti, critici, galleristi e altri soggetti, istituzionali e non. A nostro avviso, questa imprescindibile fase potrà avere inizio soltanto attraverso una profonda e comune riflessone sugli eventi piccoli e grandi della recente storia del contemporaneo a Palermo: ancora una volta crediamo che attraverso il dialogo, la condivisione di esperienze e la discussione di proposte si possa dare avvio ad un radicale processo di rimodulazione che forse – i presagi e preliminari non mancano – è già cominciato. Molti segnali di cambiamento, infatti, sembrano aprire a nuove prospettive di dialogo sia da parte degli operatori ormai “storici”, sia da parte di quelli che timidamente, ma con proposte interessanti e talvolta coraggiose si affacciano a questo mondo. Crediamo, altresì, che sia di fondamentale importanza l’incremento di strategie mirate a migliorare ed aumentare l’accesso alle nuove generazioni di artisti. Ci auguriamo, ancora, che in un momento di crisi di senso e di modelli tradizionali come quello che stiamo vivendo, una rinnovata coscienza civica ci orienti e ci aiuti a superare le divisioni e le compartimentazioni: un sistema frammentario è cosa radicalmente diversa da un sistema a voci plurime coeso e solidale. Un ultima osservazione riguarda le relazioni con la scena internazionale: la futura costruzione comune di un nuovo sistema, non potrà non prevedere un programma di circolazione della cultura e dei corpi e offrire validi strumenti per mettere in contatto gli artisti locali con il resto del mondo e viceversa: il senso, come diceva qualcuno, emergenze sempre per differenza.
Per approfondimenti:
http://www.facebook.com/pages/Fare-Ala-art-group/331001983585105?sk=info