Intervista a...Nicola Samorì
In un luogo lontano, dove il divino pare scontrarsi con il terreno, ci appaiono immagini di un uomo che ha paura di affrontare tutto ciò davanti a cui la vita spesso lo pone.
L'opera dell'artista Nicola Samorì si definisce nello stesso momento in cui la si osserva nel suo essere viva, e appartenere ad un mondo che non è il nostro.
L'antico pare fondersi con il presente, in una pittura senza tempo e confini che pare portarci in uno spazio che non c'è più o che dovrà venire. Un' opera che si consuma quasi guardandola, per mostrarci come il tempo passi inesorabile senza lasciare traccia alcuna.
Cosi l'artista, ci offre le sue creature, come volerci rendere partecipe delle sue ossessioni e del suo volere, e cosi l'artista, ci pone dinanzi ad un lavoro contemporaneo ma dallo spirito e fascino remoto a cui di certo non si rimane indifferenti.
1) I tuoi lavori sembrano vivere il passaggio del tempo eppure nascondono un'eleganza trascendentale...
I miei lavori sono piani di accumulo temporale e spingono l’immagine verso la sua estinzione. È sugli ultimi istanti di un’opera che si concentra la mia attenzione, quando in essa s’imprime una forma di bellezza estenuata, al limite.
2) La mostra che inauguri prossimamente sarà “la più grande e complessa” fatta fino ad ora, porterai dei lavori del tutto nuovi?
No, solo due saranno i pezzi inediti, sebbene molto complessi, quasi cardini intorno ai quali far scorrere una folla di santi, ignoti, scene di genere, invenzioni.
Alla Kunsthalle di Tübingen s’incontreranno quasi sessanta lavori, per la prima volta insieme, a contatto con una selezione di opere antiche che incarnano lo stato dal quale i miei lavori hanno spesso origine.
Ciò che vorrei mettere in scena è una dimostrazione di quanto sia difficile creare senza mutilare e di come solo accumulando una grande empatia con il soggetto che si ha di fronte sia possibile trasmettere il senso di perdita che affiora da ogni colpo inferto.
Restano impressioni inquiete, una sorta di sospensione della forma, quasi un purgatorio delle immagini; Fegefeuer (purgatorio in tedesco) non a caso dà il titolo alla mostra.
3) La tua mano pare seguire più un gesto rituale che un gesto ben studiato e accademico, nonostante accademica sia la tua prima formazione, da cosa ti lasci trasportare?
Aver frequentato un'accademia oggi non significa avere una formazione accademica in senso tradizionale.
Accademia e manierismo sembrano significare sempre la stessa cosa mentre basta declinare una soluzione formale per pochi decenni e si è già in odore d’accademia; pensiamo al grottesco caso Gimenez dove il pubblico in ritardo, complice il circo mediatico, simpatizza con le soluzioni “ingenue” sdoganate dalle avanguardie.
Siamo tutti dalla parte di Derain.
Il mio gesto punta altrove, forse proprio verso la vecchia accademia, ma lo fa con la trepidazione con la quale all’inizio del secolo si scrutavano le raccolte d’arte africana o le espressioni degli internati e con una ritualità che affonda nelle mie origini contadine, quando nutrire e consumare creature era abituale e necessario.
4) Sei mai in sfida con te stesso e con i tuoi lavori precedenti?
Certo, per un autore le insidie peggiori si nascondono nelle opere migliori. Ci sono lavori ai quali sono rimasto impigliato per lungo tempo, episodi rari che costellano il mio percorso, ma ho imparato a essere irriverente anche col mio passato, non solo col museo.
Quando l'abitudine s'innerva nel lavoro bisognerebbe buttarsi via, ma è difficilissimo.
5) Sostieni di aver preso spunto da più fonti ma cosa ti ha realmente spinto a dedicarti alla pittura?
Le “fonti” sono solo documentazione, informazione funzionali al farsi delle immagini; c’è la paura all’origine del mio lavoro: paura del corpo, della morte, degli uomini. Penso che la mia natura di artista somigli al non aver via di scampo; le opere sono solo rifugi temporanei, e la pittura uno spazio d’agio dove nascondersi.
Martina Adamuccio