Isidore Lucien Ducasse, nato a Montevideo nel 1846 e morto a Parigi nel 1870, assunse lo pseudonimo di Conte di Lautréamont ispirandosi forse ad un romanzo di Eugene Sue intitolato, appunto, Lautréamont. Un’altra, fra le molte tesi sull’adozione dello pseudonimo, dato che L. non amava sicuramente Sue, recita che lo pseudonimo sarebbe un gioco di parole per “altro mondo, altra verità”. Così come “Maldoror”, l’eroe del suo carme “Canti di Maldoror” sarebbe “male di aurora, mal di vita”. I canti sono sei, scritti con un linguaggio mai tentato prima. Nel primo canto, L. avverte che “… Non è bene che tutti leggano le pagine che seguono; pochi soltanto potranno assaporare senza pericolo questo frutto amaro. Perciò, anima timorosa, prima di avventurarti oltre in queste lande inesplorate, volgi indietro i tacchi, e non in avanti”. Segue una delle prose più ardite che sia mai stata concepita (Baudelaire farà altrettanto, ma su un piano concettuale diretto, cioè senza giri di parole e senza quel fascino compositivo che troviamo qui). Nonostante gli anni, la provocazione di L. resiste. Merito anche del Surrealismo che riscoprì l’autore, trovandolo assai vicino a sé. Va detto che Lautréamont non appare, invece, molto vicino ai Surrealisti e questo perché il suo poema non ha nulla di onirico, né possiede alcun volo pindarico. Esso dà piuttosto l’impressione di una confessione sfrontata e in qualche modo disperata per il ricorso alla sfrontatezza. L’autore si sente vivo, si sente vero inventando tutta una serie di situazioni e di teorie, di crudeltà simboliche che scombinano l’ordine borghese ed irridono quella cultura neoclassica che la borghesia imita ed ostenta come fosse un trofeo. A sterilizzare il Neoclassicismo provvedono l’accademismo pittorico e quello romantico, portati, il primo dall’astro napoleonico e il secondo dalla reazione ad un mondo privo di reali riferimenti culturali, conscio delle parodie messe in atto dal sistema borghese. L. ha occhio e sensibilità per la cultura vera, quella classica priva di orpelli. Il mondo nel quale vive è estremamente avaro di soddisfazioni morali. Dio è morto e la proposta laica pretende di andare indisturbata verso la soluzione spirituale trasformandola in materiale. Ho il potere di fare, derivato dalla rivoluzione industriale, e farò tutto. Ma un animo sensibile come quello di L. vede con esattezza i limiti della proposta di sostituzione divina con qualcosa di umano, per giunta raffazzonato per la fretta di dimostrare l’onnipotenza derivata all’apparente dominio sulla natura e determinata dai condizionamenti cui l’uomo industriale riesce a praticare sulla natura stessa. Si scambia il poco per il tanto e cioè si trascurano i meccanismi più riposti della realtà. Il romanticismo fa la sua parte enfatizzandoli e portandoli sul piano dell’ineffabile di cui il cuore si fa carico: con la cacciata divina, manca il riferimento spirituale. Si cerca di provvedere alla mancanza con le languidezze dell’animo accolte a braccia aperte. L. si rifiuta di valorizzare sia la prosa che la poesia della vita, vedendo l’una contraltare in qualche modo forzato dell’altra. Non ci si deve abbandonare alla svenevolezza, piangendo l’impossibilità di controbattere la presunzione materialista, questa è la sua opinione. D’altro canto, è un mistero per cui tutto ciò stia accadendo, è come Dio stia abbandonando l’uomo; oppure Dio è solo un’illusione, un rifugio per tremebondi: il pasticcio materialista e quello romantico mettono per lo meno in chiaro che l’uomo può contare solo su se stesso.
La cosa va denunciata: Lautréaumont lo fa con rabbia, con violenza verbale, con delusione esistenziale. La delusione esistenziale è un dato nuovo che costringe il poeta ad un tour de force per stabilire una propria identità. Cinque canti del suo poema mostrano disprezzo verso il presunto tradimento divino – gli uomini lasciati a se stessi, nella loro superbia – mentre il sesto cerca di bloccare la delusione e prova a costruire una lucidità umana di stampo divino. Pian piano avviene una creazione concreta della personalità umana: sostanzialmente è un viaggio nelle radici dell’uomo alla ricerca della scaturigine dell’invenzione trascendentale totemica. Il totem va rimosso. Se ne ha timore, ma si avverte la necessità di farlo. E’ come una liberazione ed è nel contempo una condanna all’esistenza in presa diretta. Non è più vivere secondo schemi prefissati. La cosa fa paura, ma forse è possibile dimostrare quanto valga l’uomo in sé. Una questione di vanità? E se dietro non ci fosse niente? La fantasia totemica funzionava: funzionerà l’idolo non più totemico? Lautréaumont va alla ricerca ostinata – e poco ottimista – della chiave. Accarezza il nichilismo, ma si rende conto molto presto che non serve a nulla, che esso è un falso rimedio. L’uomo vuole risposte, non condanne a priori. La questione si fa corposa e chiama in causa una impreparazione al suo svolgimento con le armi di un linguaggio nuovo in formazione. Ma L. non si arrende. Passa, pur certamente non indenne, da riflessioni inedite e quasi insormontabili a dichiarazioni ragionevolmente speranzose, dimostrando alla fine l’avvento di una maturità intellettuale, foriera di ulteriori e ben più significativi sviluppi, che lo salva dal rifugio in un qualsivoglia simulacro di verità. La verità deve cercarla l’uomo, non una sua parodia. Quanto il cammino di Lautréaumont fosse appena iniziato, ma assai già promettente è dimostrao dalla poesia che segue:
Ferita
Ma non mi lamenterò più. Ho ricevuto la vita
come una ferita e ho proibito al suicidio
di guarire la cicatrice. Voglio che il Creatore
ne contempli, in ogni ora della sua eternità,
il crepaccio spalancato.
Lautréaumont (ultimamente però si firmava con il suo vero nome, Isidore Ducasse) fu trovato morto in una stanza d’albergo di Parigi a soli 24 anni. Il referto medico non precisa. Qualcuno avanzò l’ipotesi del suicidio: una ipotesi che non regge, considerando la sua voglia di vivere e di capire la vita.