L'INCREDIBILE BATTAGLIA DELL'ESERCITO VETERO ROMANTICO
Di Igor Zanti
Siamo vittime dell’Ottocento. Secolo meraviglioso, secolo dell’industrializzazione, del bel canto, dei moti risorgimentali, dei tenenti di cavalleria che facevano innamorare scontente contesse nei peccaminosi retropalchi dei teatri d’opera, dei valzer di Strauss, dei gattopardi, della regina Vittoria, delle macchine a vapore, del positivismo e della fiducia nella scienza, dei passaggi in India, ma soprattutto -ahime- del romanticismo. Per quanto dal XIX secolo ci separino quasi duecento anni, la sua eredità culturale come una nube nefasta, degna della peggiore Seveso, si aggira sul pensiero comune e non comune, e non sono bastate le risse in galleria, gli arredo bagno messi a testa in giù, o tutto uno stupefacente Novecento per liberarci dalla sua egemonia.
Viviamo sostanzialmente in un ‘epoca post romantica, tardo romantica, vetero romantica- le definizioni possono essere molte - dove l’estetica di fine Ottocento permea quello che con termine borghese - quindi necessariamente di origine ottocentesca, che è stato il vero secolo della borghesia, con buona pace di Jacques Le Goff - si chiama buon gusto.
(Michelangelo-Cappella Sistina)
Inevitabilmente questa aura romantica, questo sentire, si riflette anche nell’idea che si ha dell’arte, dell’artista, e di tutto quel complesso mondo che gli gira intorno.
La cosa che forse inquieta di più è che, fatte le dovute distanze e dato il dovuto peso alle cose, gli stessi addetti ai lavori, quelli che dell’arte avrebbero dovuto comprendere i millenari meccanismi, in un delirio di desiderosa e nostalgica autogiustificazione e autoaffermazione, sono vittime di questa visione.
L’artista, nell’intimo e nel cuore di molti sospettabili e di ancor più insospettabili, dovrebbe essere un eroico tubercolotico che, avvolto in mantelli di feltro per difendersi dall’umido di mal ridotte abbaini sui tetti di una Parigi alla Mouline Rouge (di Baz Luhrmann si intende), cerca l’ispirazione osservando da un’alta scogliera di Dover il mare in tempesta, per poi recarsi in studio in preda a frenesie creative, vittima di tormenti ed estasi e di fatine verdi al sapor di anice (nel migliore dei casi con le non sgradevoli fattezze di Kylie Minogue). Ci si scandalizza e si grida all’orrore quando ci si rende conto che questa figura da operetta o da romanzetto per smaniose signorine bene non corrisponde alla realtà, e che, talvolta, e nei casi di maggior successo, gli artisti sono cinici e accorti professionisti, che calcolano ogni movimento, ogni esposizione, l’effetto che ogni opera deve avere sul pubblico, come navigati esperti di marketing. Forse le soffitte maleodoranti sono appannaggio di revanscismi bohemienne, e si può essere artista, un grande artista, senza tormenti e senza estasi, visto che la tubercolosi fortunatamente si riesce a curarla e che una buona opera d’arte non deve essere necessariamente frutto di sofferenze e squarci dell’anima, ma, semplicemente, di ragionamenti, complessi, articolati, ma sempre e solo ragionamenti.
(Tiepolo- Residenz-Wuzbug)
Con la vergogna della mente e l’orgoglio del cuore questi insospettabili vetero romantici si rintanano in un passato poco o superficialmente conosciuto, facendo riferimento a maestri, che, erroneamente e goffamente, si immaginano liberi di potersi esprimere secondo quella falsa chimera che è l’ispirazione.
Si dimentica sempre che dietro a qualsiasi grande opera c’è soprattutto la mente, la mente dell’artista. Un qualsiasi artista di successo del passato, in genere è riuscito a realizzare un capolavoro, rimanendo all’interno dei non agevoli paletti delle lettere di incarico, in cui si specificavano dimensioni, colori, materiali, tematiche, personaggi, che dovevano essere utilizzati per portare a termine il lavoro, e - ahimè - essere pagati. La grandezza sta proprio nell’avere realizzato al tempo stesso una buona opera d’arte e la soddisfazione del committente.
L’esercito dei vetero romantici non ricorda come Larry Shiner, nel suo L’invenzione dell’arte, abbia evidenziato che l’idea di opera d’arte priva di finalità, o meglio, fine a se stessa, è completamente moderna, inteso con moderno quel periodo che parte dalla necessità di classificazione enciclopedica. Le tragedie greche come i vasi a figure rosse, la statuaria antica, come gli affreschi della cappella Sistina avevano un fine, un fine che poteva essere di utilità comune, ma anche semplicemente didattico o di comunicazione.
Giulio II non scelse Michelangelo solo perché gli piaceva o l’ammirava, lo scelse perché al momento era uno dei maggiori artisti disponibili, il meglio, e parola orrendamente attuale dopo Lo squalo da dodici milioni di dollari di Edward Thompson, il miglior brand dell’arte. La cappella papale affrescata dal miglior artista di brand dell’epoca è la massima dimostrazione della potenza del Papa stesso. Così fa il principe arcivescovo di una semisconosciuta città della Germania meridionale – Wuzburg - quando chiama un Tiepolo, all’apice della sua carriera artistica e mondana, ad affrescare un soffitto grande come un campo da calcio.
Anche nel passato l’arte e gli artisti facevano parte di un enorme sistema di marketing, erano gli artefici di spot pubblicitari finalizzati a promuovere ed a consolidare il potere di una famiglia, di una congregazione, di una fazione politica o religiosa. Nessuno però si sarebbe mai sognato di accusare un Michelangelo o un Tiepolo di non essere artisti, o di essere privi di contenuti perché si sottomettevano, con naturale realismo, ai bisogni ed alle necessità dei proprio committenti; nessuno, con buona pace del falso mito dell’outsider, ne avrebbe attaccato il lavoro perché troppo inserito all’interno del sistema sociale ed economico dell’arte.
(Damien Hirst-The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living)
I vetero romantici che si nascondono nelle file della società delle arti vorrebbero un artista comunque sempre sconfitto, un artista eroe di un antieroismo malinconico e sterile, e nasce il sospetto che vogliano un artista da poter dominare, che non abbia indipendenza, che non abbia vitalità, che non possa affermarsi.
Il vero vetero romantico ama il disfacimento, la decadenza, la sofferenza perché di fondo si nutre di questo, si cela dentro l’introspezione come un blasone da portare su uno scudo di falsa e anelata intellettualità e con le armi della delegittimazione dei contenuti culturali attacca gli artisti per fiaccarne la forza creativa.
Il risultato di questa malattia che sta uccidendo l’arte contemporanea sono mostre tutte uguali a se stesse, musei claustrofobici e di insopportabile disinteresse, biennali fotocopia, dove si respira un’aria mortifera, perché di fondo il vetero romantico è un essere catacombale, amante di un pauperismo di facciata, di una minimizzazione dei concetti, non solo di tipo estetico ma, contrariamente a quanto vogliono farci credere, anche intellettuale.
La domanda forse che ci dobbiamo porre è se la situazione dell’arte italiana non sia frutto di un adeguamento a questo clichè vetero romantico, al desiderio di essere sempre fuori da un sistema che si attacca in continuazione dalle pagine di giornali, riviste, saggi, ma che, con una dose di sano cinismo, bisognerebbe iniziare ad amare ed appoggiare. Il cinismo, d’altronde, come diceva Oscar Wilde, attraverso il suo alter ego Lord Henry, non è altro che l’arte di vedere le cose come sono e non come dovrebbero essere, e noi, se non mi sono sbagliato fino a questo momento, stiamo parlando di arte.
[ Il Raglio del Mulo, la Rubrica di Igor Zanti: n.2, "L’ incredibile battaglia dell’esercito Vetero Romantico" pubblicato su lobodilattice il 11 - 10 - 2010 ]