L’Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa. Le mie conclusioni appartengono alla scuola inglese, la mia formazione viene dalla scuola tedesca, perché ho letto e riletto i libri di Marx per 35 anni.
La prima frase è di Jean-Paul Sartre (1905-1980, tratta dal saggio “L’esistenzialismo è un umanismo”, la seconda di Raymond Aron (1905-1983) appartiene all’introduzione a “Le tappe del pensiero sociologico”. Due fra i numerosi saggi e articoli di entrambi (Sartre autore anche di romanzi e di copioni teatrali, e persino di testi per canzoni di Juliette Grèco, musa esistenzialista). I due, benché amici per tutta la vita, sono divisi da un abisso intellettuale e culturale. Sartre riconobbe al “rivale” soltanto la giustezza della disamina sul fenomeno dei “boat people”, fuggiaschi dal regime comunista vietnamita.
Sartre vedeva l’umanità opportunamente suggestionata dagli intellettuali a cambiare comportamento verso il potere: in buona sostanza, abbattendo il capitalismo, il sistema. I due termini non sono così simili come sembra. Il sistema, infatti, si avvale di ogni mezzo a disposizione per far valere l’oligarchia, mentre il capitalismo, pur essendo il mezzo principale, è uno di essi. La dimostrazione è data dal regime americano e da quello sovietico (quando c’era). Il capitale americano è fatto da un insieme d’imprenditori privati, quello sovietico da un insieme di burocrati statali. Entrambi, specie il secondo, di matrice europea classica, si sono sostituiti al latifondo: l’America se ne liberò con la guerra di secessione, la Russia (poi Urss, oggi di nuovo Russia e ormai filo-occidentale) con la rivoluzione d’ottobre. Il sistema moderno, finanziario in toto, altro non è che un adeguamento moderno delle vecchie forme di pressione sociale a favore di una minoranza (i “capi”).
Sartre divenne centrale nel pensiero francese (ed anche europeo) durante il decennio 1945-1955. Nell’ottobre del 1945 egli fondò la rivista “Les temps modernes” (c’era in redazione anche Aron, per poco però), punto di riferimento degli anti-colonialisti (celeberrimo divenne la difesa dell’Algeria dagli assalti francese) e degli aspiranti alla fondazione di una nuova società. Sartre, ferocemente contro il gollismo, rappresentava qualcosa di nuovo e di puro. Era stato partigiano nella compagine denominata “Combat” e aveva sempre difeso le idee comuniste. Nel decennio in questione, era arrivato a criticare l’Urss (pur non rinnegandola) per la politica dittatoriale e aveva pensato a una sorta di “terza via”, essendo le due canoniche rappresentate dall’imperialismo americano e dal marxismo impuro di Stalin. La sua abitazione a Parigi, a Saint German ds Près (la leggendaria “rive gauche”), dove stava con Simone de Beauvoir (ufficialmente erano semplici amici, lei rifiutò sempre di sposarlo, in realtà erano amanti particolari, liberi cioè di vivere la propria vita sessuale: erano entrambi molto attivi, la Beauvoir bisessuale dichiarata; avevano amanti giovani, potendo profittare della loro posizione) era meta di pellegrinaggi.
La terza via di Sartre prevedeva scelte responsabili, e individuali, a favore della collettività. Compito dell’intellettuale era di sollecitare lo spirito collettivo nella massa, un po’ come aveva teorizzato Gramsci. Nessuno dei due, tuttavia, spiega perché mai il cosiddetto intellettuale dovrebbe sacrificare la propria personalità a un fine che poi lo ridimensiona. O, meglio, lo spiega con tesi oggettivamente fumose, astratte, derivate, per una via filogenetica articolata, dal romanticismo. Il fallimento etico di quest’ultimo trova riscatto in molta filosofia del Novecento sottoforma di nobili velleità moraleggianti. Sia Gramsci sia Sartre sono sicuramente in buona fede, ma la consistenza delle loro proposte, specie quelle del francese, risentono parecchio del clima culturale del tempo, cagione di due guerre mondiali e del ripetersi di sistemi
mutuati dai poteri regali e papali, riferimenti classici dai quali la civiltà industriale dovrebbe, per coerenza, affrancarsi al più presto.
La civiltà industriale moderna è nata su iniziative individuali, è nata dalla borghesia intraprendente. Questo fenomeno, la borghesia, possiede, nel fondo, una virtù determinante per la crescita umana: il personale senso di responsabilità. Quando nasce la rivoluzione industriale, l’imprenditore non si mette sotto l’autorità del re o del papa, non cerca protezioni astratte, bensì persegue concretezza. Il perseguimento della concretezza è un fatto rivoluzionario al quale dovrebbe seguire, per logica, l’abbandono dei vecchi sistemi. L’oligarchia passiva dell’Ottocento e del Novecento (quella che non ammette interferenze) è una metafora delle antiche strutture: pochi si avvantaggiano dell’operato di molti. I molti continuano a essere considerati sotto-uomini.
È in un ambiente del genere che nasce Marx ed è in quello, ancora più feroce del Novecento, che sorge l’astro filosofico-populistico di Sartre. Il francese diventa noto e apprezzato perché va sulle barricate, perché rifiuta il Nobel (1964), la Legion d’Onore e altro ancora (dunque è dei “nostri”). Egli è per il rispetto dell’individuo. Sartre, ateo, fa, in definitiva, un discorso cristiano. Il guaio è che anche lui lo fa dal pulpito. Come dire: il prete viene sostituito dal “maître à penser”, una figura – per la sua pretesa di guida assoluta – da evitare accuratamente. Un totem moderno che non consente sviluppi culturali.
Sartre è considerato soprattutto l’esistenzialista per eccellenza. Il suo impegno civile è visto, infatti, come la conseguenza del suo esistenzialismo, che è in itinere più che definito e che non manca di contraddizioni. Ad esempio egli si dichiara comunista, ma un passo dopo ammette di essere anarchico. Anzi, l’anarchia, alla fine, lo attrae di più, tanto che in una conferenza, verso la fine della sua vita, egli disse proprio così: “Chi mi conosce bene, sa che in ultima analisi io sono un anarchico”. Scrittore portato alla divagazione e alla dispersione, votato all’accavallarsi di concetti per enorme considerazione di sé (per cui vale qualunque suo concetto e dunque non ne esistono di alti e bassi), traduttore in proprio di osservazioni convenzionali, così da renderle quasi nuove, Sartre si cimentò con l’esistenzialismo cercando di comprenderlo nella formula storica del “carpe diem” con l’aggiunta, però, della raccomandazione (vaga) di usare consapevolezza. Praticamente la popolarizzazione del motto hegeliano: “Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale”, motto che è una benedizione e una maledizione, allo stesso tempo, dell’uomo moderno.
La retorica sartriana non è priva degli ultimi richiami filosofici, da cui è uscito l’esistenzialismo: quelli di Kierkegaard, di Husserl, di Heidegger, di Jaspers. Con questo bagaglio al seguito, la sua avversione per Freud (il quale nega l’onnipotenza della razionalità) era inevitabile. In particolare Sartre si distacca da Heidegger in quanto, molto sinteticamente, ha fiducia nella ragione dell’uomo. Heidegger vede nella ragione un mezzo per la creazione di un mondo parallelo a quello reale. Se la si persegue con presunzione (inevitabile agli occhi del tedesco) l’uomo finirà con l’ingannarsi e non riuscirà a risolvere i problemi dell’esistenza. Il nichilismo di Heidegger sorge da questa delusione di fondo, quello di Sartre viene distratto dal dubbio, ma è un attimo. Il francese presta più attenzione alla propria figura sciamanica, la quale emana energia benefica come un placebo.
Raymond Aron, dopo la breve esperienza giornalistica con Sartre, collaborò per trent’anni con il Figaro parigino e scrisse articoli anche per il Corriere della Sera e per il Giornale di Montanelli (di quest’ultimo era amico). È autore, fra il molto altro, di un saggio intitolato “L’oppio degli intellettuali” dove, con maestria (felicemente sottotraccia), evidenzia quanto il comportamento superficiale di certi commentatori sia responsabile dei regimi totalitari, con danno irreparabile nei confronti della convivenza. La sua collaborazione con Sartre s’incrinò per l’ostinazione di quest’ultimo nel procedere a testa bassa contro le istituzioni. L’amico, con poca coerenza, incitava alla ribellione e un attimo dopo raccomandava prudenza, spaventato da qualche manifestazione di piazza finita male. Aron era un tipo molto riflessivo e molto prudente. La sua prudenza non era certo frutto di paura. Egli era convinto che il sistema dovesse essere cambiato, ma all’idealismo degli intellettuali comuni opponeva la libertà di pensiero. In altre parole, Aron pensava a una promozione morale e sociale basata sull’autoconvinzione, non certo su imposizioni esterne, vuoi esplicite vuoi implicite. La libertà di coltivare la propria coscienza avrebbe potuto portare persino a esiti contrari a quelli auspicati, ma il rispetto verso le scelte, per il francese veniva prima di tutto.
Aron lesse Marx come nessuno. Lo considerava e lo ammirava. Sapeva benissimo che Lenin e Stalin non erano marxisti (infatti, per distinguersi dai due, egli si dichiarava marxiano). Neppure Mao lo era. In fondo, il comunismo era cosa troppo seria per riuscire a trovare un posto fra gli uomini. D’altro canto, le teorie di Marx portavano alla nascita di considerazioni del tutto nuove sul sociale e sulla socialità, ovviamente se si esclude l’astrazione religiosa. Il positivismo esigeva positività, concretezza, anche nella convivenza fra le persone. I regimi totalitari (nelle democrazie travestiti oligarchicamente) potevano garantire concretezze parziali, nel senso che la definizione delle stesse proveniva da pochi. Si perdevano così parecchi contributi, non si miglioravano le performance dell’uomo. L’idealismo è evidentemente duro a morire.
Aron stava su un piano più alto delle facili ironie, più alto anche di quelle più sofisticate. Egli non offre soluzioni, bensì pone problemi. Il primo riguarda la serietà delle proposizioni, il secondo l’impostazione corretta del tema, secondo le conoscenze, per così dire ufficializzate, del tempo. Ma il nostro grande intellettuale fa di più, e cioè tira in ballo e cerca di applicare una sorta di metodo speculativo neutro, il più possibile slegato dalle contingenze. Qui si differenzia in modo netto da Sartre, visionario dalla vista corta perché concentrata quasi tutta su se stesso.
A gioco lungo, Aron, discreto, umile, riservato, dedito alle proposte, non alle provocazioni, attrae più di Sartre, dà l’impressione di essere più costruttivo, benché sia stato tacciato di conservatorismo. In realtà, i suoi numerosi scritti sembrano piccoli passi su terreni inesplorati, alla ricerca di un orientamento che la sua bussola personale cattura, o s’illude di catturare (egli è ben conscio di tutto ciò), con fatica. L’impegno reale di Aron sta nella ricerca di chiarezza intellettuale, di validità dell’assunto iniziale e di attenzione verso ogni singolo sviluppo, tenendo presente la propria immaturità verso l’obiettivo assoluto, ma contando sul desiderio e sulla volontà di maturare a dovere. Intanto, dei promemoria sull’equipaggiamento da portare con sé nella scalata oltre le cime conosciute, in direzione di quelle conoscibili, in essere in se stessi, a favore delle qualificanti energie speculative e del rispetto verso l’intera personalità umana.
Dario Lodi