Truman Capote (1924-1984) piacque agli americani per la sua determinazione, come rivalsa da un’infanzia difficile, a essere personaggio. Tale lo divenne davvero quando riuscì a entrare nell’alta società, dove conobbe, e fu amico, di Jackie Kennedy, Humphrey Bogart, Andy Warhol, Ronald Reagan e altri. Perse amicizie e conoscenze con la pubblicazione di alcuni capitoli del romanzo “Preghiere esaudite” (non finito e pubblicato postumo) dove non c’è pietà per nessuno dei personaggi in vista che aveva frequentato, benché ben “travestiti”. Fu abbandonato da tutti. Persino il suo amante Jack lo lasciò.
Centrale, nell’opera di Capote, è il romanzo-verità “A sangue freddo” che è la ricostruzione di un clamoroso fatto di sangue avvenuto nel Kansas alla fine degli anni Cinquanta. Essendo un avvenimento reale, la ricostruzione fantastica suona francamente male, ma va detto che Capote, facendosi coinvolgere emotivamente, è riuscito a rendere accettabile, e anzi interessante, il suo intervento.
L’interesse nel romanzo in questione è dato da un tentativo estremo di recuperare idealmente gli autori del massacro, dipingendoli, infine, come vittime della società. Tesi del genere non sono certo nuove e molte sono ormai suffragate da ampie prove: Capote vi aggiunge un pathos insolito e assolutamente vero. Lo scrittore rivive la vicenda in modo persino morboso. Tutto vero veramente e incisivo o verità appiccicate e sostanzialmente effimere? Il Nostro organizzò una festa memorabile al Plaza Hotel di New York subito dopo la stesura dell’ultimo capitolo.
Che una certa, imbarazzante, finzione sia evidente non è possibile negarlo: come è possibile festeggiare un massacro? Che la finzione sia una caratteristica (non la sola per fortuna) della cultura americana è una cosa assodata da tempo alla quale, grazie alla vicenda del Plaza Hotel, anche Capote sembrava ormai aggregato. Prima, il nostro scrittore aveva provato a emergere con una scrittura convenzionale, anche se molto efficace (“Altre voci, altre stanze”, “Colazione da Tiffany”).
Il nostro scrittore cambia registro con “A sangue freddo” (1966), dopo aver fatto indagini su indagini e aver frequentato gli assassini. La sua prosa diventa incandescente e nella medesima si fa strada un sado-masochismo, si direbbe genuino, che costringe alla lettura. E’ una specie di abbandono al peggio di noi stessi, riscattato da un buonismo – però non di maniera – che ci grazia. Capote sa come muovere le pedine, ma poi diventa pedina lui stesso. Nel romanzo ci sono pagine accorate, prive di malizia, che coinvolgono positivamente.
Capote è stato paragonato a Oscar Wilde, non si capisce sinceramente perché, forse per la stessa disinvoltura “oltraggiosa”. Per quanto riguarda l’espressione, Capote è fondamentalmente serioso, si crede un filosofo o un profeta, vestito da detective, e rimastica con gusto (talvolta è un gusto autenticamente amaro) teorie vecchie, senza approfondirle più di tanto, ma provando su di sé la mancanza del loro esito.
La società americana, con scarsi valori di fondo, lascia sempre emergere personaggi “strani”, incontrollabili, a patto che il sistema li possa controllare, servirsene. Essi devono stare nel sistema, “giocando” a restarne fuori. Se sono molto incontrollabili, come Capote, tossicomane, alcolizzato, non dovrebbero diventare dei modelli. Ma la macchina non sente ragioni: se il personaggio commercialmente rende, la sua beatificazione va sostenuta.
A questo punto, anche Truman Capote diventa una vittima del sistema e anche noi lettori lo siamo se non andiamo a rilevare la sua sofferta sincerità, pur a sprazzi, nel libro della sua vita, invece di totemizzare un uomo distrutto da un’esistenza difficile, fuori della sua portata, da sempre.
Dario Lodi