…. noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile. …
Il brano riportato appartiene alla “Rivoluzione Liberale”, di Piero Gobetti, e si riferisce a un “elogio della ghigliottina”, metafora che cela il richiamo a un potere forte per evitare che uno debole si rafforzasse, sino a prendere il soppravvento. Erano i primissimi anni Venti, quasi un secolo fa, e il Fascismo faceva sentire chiaramente la sua ingombrante presenza. Gobetti, torinese, era allora nel cuore della contestazione popolare: a Torino esisteva il Movimento Operaio, c’era la questione dell’occupazione della Fiat, si sognava una rivoluzione come quella russa di pochi anni prima. Gobetti proveniva da un idealismo risorgimentale. Nato nel 1901, presto aveva sposato la causa sociale, animando un discorso politico che poneva romanticamente la libertà sopra di tutto. Aveva conosciuto, o era entrato in contatto con i migliori personaggi della novità libertaria, seppure soggetti a riferimenti di diverso indirizzo. Non pochi i marxisti (forse, per il Nostro, i più attraenti), fra cui Gaetano Salvemini, il primo Giovanni Gentile e Benedetto Croce (degli hegeliani simpatizzanti di sinistra, per quanto non dichiarati), Giuseppe Prezzolini, Jean Jaurès, Antonio Gramsci, Luigi Sturzo, Eugenio Montale (di cui pubblicherà “Ossi di seppia”), Gaetano Mosca.
Gramsci vs Gobetti
Gramsci non fu tenero con la “Energie nove” di Gobetti (la sua prima pubblicazione, seguiranno “La rivoluzione Liberale” e il “Baretti”) che definì “Un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza lepre”. La cosa favorì l’opinione per cui Gobetti fosse un idealista astratto. Ovvero ciò che egli diceva era irrealizzabile per palese mancanza di basi. L’autore, per la verità, possiede una filosofia di fondo storicamente zoppicante. Egli ritiene debba essere il sistema a correggere se stesso, imbastendo lezioni di cultura alla base, affinché il villano si evolva e migliori se stesso e la società. Gramsci sostiene, invece, che il villano debba svegliarsi e studiare come funziona il sistema per portare il proprio contributo a evolverlo. Certo, una spinta iniziale va data e questa spinta è compito dell’intellettuale, non del sistema materiale, per così dire superiore all’intellettuale stesso. Che interesse dovrebbe avere un capitalista a spiegare come accumula il capitale? Tuttavia, parlando in termini liberali, Gobetti ipotizzava una società ideale in cui tutti, ma proprio tutti, dal capitalista al salariato, avevano da trarre giovamento da un’intesa comune, dimenticando che la malizia del primo consente di schiavizzare il secondo. Sicuramente, in ultima analisi e a società matura, Gobetti ha ragione, ma la società matura era ed è tuttora un’utopia. Questa utopia l’aveva capita molto bene Mosca che alla fin fine sposò la teoria liberista quasi “obtorto collo”, ovvero come soluzione accettabile, in luogo di altri sistemi (egli paventava il pericolo di una dittatura vuoi monarchica, vuoi borghese, anticipando i tempi), pur non dichiarandola soluzione per eccellenza. Il problema non stava nel termine “liberalismo” (ognuno per sé e dio per tutti, rispettando dio, ovviamente e cioè un’etica di fondo) bensì nel rispetto del principio liberale (la mia libertà finisce dove comincia la tua), sostanzialmente un’altra utopia, però, qui, vestita a festa. Gobetti, al confronto, è più terra terra, con la testa più fra le nuvole: di sicuro una leggerezza di prospettiva. Gramsci, infine, a differenza dei due è più pragmatico, sebbene non si allontani da elaborazioni legate a un’utopia essenziale, quella portata, come un vento inebriante, dal marxismo vittorioso in Russia (per motivi, fra l’altro, ben poco coerenti con quelli di Marx: la rivoluzione fra gli operai, invece fra i contadini e non per loro decisione!).
Il contributo di Gobetti alla laicità
Lasciando la storia agli storici, ciò che qui interessa di Gobetti (morto a 24 anni in Francia a seguito delle botte fasciste in Italia per il suo anti-regime) è l’apertura, quanto si voglia disordinata, quanto si voglia raffazzonata, del suo programma libertario basato su argomentazioni culturali forti. Riferimento risorgimentale nel suo caso è di tipo esclusivamente intellettuale, ovvero egli non ha fini di comodo. Il risorgimento trionfò grazie a iniziativa pratiche, prosaiche. Gobetti è un invece un poeta dei principi risorgimentali. Egli segue alla lettera il dettato cavourriano: “Libera chiesa in libero Stato”. Questo dettato va oltre la dichiarazione letteraria. Libera chiesa significa che il cittadino non deve avere più preconcetti, né obblighi di sorta. Il richiamo al potere ecclesiastico è richiamo al potere in genere, quello che trasforma cittadini in sudditi. Opporvisi significa voler spezzare, finalmente, le convenzioni che vedevano poteri forti dominare la vita del cittadino in ogni sua minima parte, sino a togliergli respiro e pensiero. Gobetti pare affermare: la conoscenza preventiva non esiste, nessuno ha il diritto di dirti cosa devi pensare, cosa in cui devo credere, le frasi che devi pronunciare, i dubbi che non devi avere. E ancora: la vita è tua, tuo il diritto-dovere di viverla, tuo il diritto di conoscere grazie a ciò che hai di più importante: la ragione. Se non usi la ragione, sei destinato alla credulità, sei costretto a vivere nel baratro dell’incertezza e quindi ti senti costretto a ricorrere alla fantasia, all’immaginazione, confondendo gli aggettivi per sostantivi. La chiesa ha grosse responsabilità nei confronti dell’ignoranza perché di essa vive. Per altro verso, Gobetti rispetta la spiritualità, non ne parla neppure dandola per scontata: essa è altro rispetto all’istituzione religiosa. La sua preoccupazione è trarre l’uomo dall’autoinganno della necessità di un potere forte. L’autentico potere forte non viene da fuori, ma va scovato dentro se stessi, come da lezione illuminista, come dagli insegnamenti di John Stuart Mill, filosofo ottocentesco, di cui Gobetti fu il principale editore italiano. Ottantaquattro le pubblicazioni della sua casa editrice, il cui motto non a caso era “Cosa ho a che fare io con gli schiavi?”. Schiavo, di sicuro, il Nostro non fu mai, se non delle sue benedette ingenuità.