Mario Franco: Facebook? La fabrica "pop" del consenso dell'artista che verrà.
Regista, studioso del Cinema Napoletano. Fondatore della prima sala di essai napoletana, la “Cineteca NO”, e successivamente della “Cineteca Altro. Si occupa da anni di cinema d’avanguardia, d’arte e teatro.
Ha documentato incontri di rilievo con artisti internazionali del calibro di Warhol. Docente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli di "Teorie e tecniche dei Mass Media".
Scrive recensioni e editoriali per diversi quotidiani e riviste d’arte.
Napoli è da sempre una città in grado di caratterizzare e possedere la mutazione dei linguaggi sociali e comportamentali e farli propri, questo secolo dell'estetica del "selfie", delle app e dei social network, sembra stia, con la complicità del mercato dell'arte appiattendo e canonizzando i linguaggi dell'arte, in cosa l'identità linguistica, intesa come anima artistica, resiste a questo processo?
Fu il futurismo a teorizzare il «completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche». Il discorso da allora in poi può esser giudicato semplicistico o complesso.
Ogni forma di comunicazione ha sulla psiche degli uomini un’enorme influenza.
Il mondo è trasformato continuamente.
Questi cambiamenti sono altrettanti modificatori della nostra sensibilità.
FB rientra in queste nuove modalità di comunicazione.
Il fatto che dia spazio ad una sfrenata autorefenzialità e ad una volgarità di temi e di parole è il sintomo di una moderna sfiducia nella democrazia rappresentativa (giudicata non più in grado di funzionare), ma anche di un’assenza di ipotesi alternative.
Nella maggior parte dei casi si moltiplicano i sentimenti xenofobi e razzisti o si accede ad un “buonismo” da romanzetto rosa. FB è anche un indicatore del crescente analfabetismo “di ritorno” che è tratto tipico di un’Italia in recessione non solo economica ma anche culturale.
Napoli, città disastrata e senza servizi moderni, trova in un’autocompiacimento nostalgico e disperato la sua filosofia lenitiva. Non riesce a produrre artisti in grado di imporsi a livello internazionale, ma solo figure epigonali, spesso interessanti, mai innovative.
Sulla mutazione in corso dei linguaggi dell'arte, godi di un punto di vista privilegiato, quella della storica cattedra di Teoria e tecnica dei mass media all'Accademia, come sta mutando nella percezione dei giovani artisti, il tempo e il ritmo di trasmissione dei propri processi artistici multimediali nell'epoca dello smartphone?
O in una qualche maniera su un modello bipolare indotto, la consapevolezza della relazione tra "arte e vita" continua a viaggiare processualmente, su un processo che mira a costruire figure d'artisti destinate a interagire con gli "addetti ai lavori" continuandoli ad anteporre per specializzazione, a processi dettati da una applicazione?
L’utilizzo compulsivo dei social network inteso come trasmissione di messaggi o come “condivisione” di messaggi altrui contribuisce a formare le nostre opinioni.
Smartphone e tablet hanno reso familiare tecnologie digitali anche a chi era refrattario all’uso del computer. L’autoreferenzialità del selfie ha ampliato il vecchio slogan di Warhol sui "15 minuti di celebrità” ancora legato ai media generalisti come la stampa e la TV.
Quanto è pronto il mondo dell'arte proveniente dal secolo passato, ad accogliere l'incredibile mutazione di linguaggio in corso e a interrogarsi su come gran parte dell'economia dell'arte, legata al secolo passato, stia o possa scomparire?
Mi riferisco ovviamente al fatto che la comunicazione artista-pubblico possa non passare più per gli spazi preposti e questo finisce con mettere in discussione anche il ruolo storico del critico moderno, che in qualche modo ad oggi, ha raccolto una sorta di diritto di rappresentanza e di delega, sulla trasmissione di senso del lavoro di un artista.
I social network hanno sviluppato una relazione “connettiva” con il mondo.
E il connettivo determina una psicologia di gruppo, sia priva di identità, sia in grado di sviluppare nuove competenze. Le relazioni condizionanti tra tecnologia e creatività sono più complesse di quanto sembri.
Più il nostro pensiero è critico, più è distante dalla massa.
La distanza che separa l’arte contemporanea dai suoi fruitori è sempre più profonda.
Al suo posto si insinua, con sempre maggior successo, la fotografia e il video: linguaggi semplificati e maggiormente aderenti alle esigenze di un pubblico medio, abituato alla decodificazione di messaggi visivi “riconoscibili” grazie alla pubblicità, alla televisione, alla rete.
Questa nuova “arte pop” trova sempre più consenso ed al suo interno cominciano a nascere nuovi artisti e nuovi comunicatori.