L’opera di Alfred Döblin (1878-1957) ruota intorno al suo romanzo più noto e più esplicito: Berlin Alexanderplatz. Il romanzo è del 1929, siamo nella Germania di Weimar. La Grande Guerra ha prostrato il Paese, ma si reagisce con feste, canti, balli. Una confusione, sostenuta dalla irrazionalità e dalla irresponsabilità, che ricorda i quadri di George Grosz e di Otto Dix. In realtà regna il caos politico, ognuno è abbandonato a se stesso e può fare ciò che vuole.
Döblin preannuncia, involontariamente, l’avvento di Hitler. Egli invoca l’ordine perso con le manie nazionalistiche di Berlino, rimpiange il sistema austriaco, miseramente crollato sotto i sogni egemonici della Prussia. Quest’ultima ha creato la Germania che a sua volta ha annientato, politicamente, la primazia austriaca. L’impero austriaco era, del resto, anacronistico rispetto alle nuove realtà capitalistiche.
Döblin, con Berln Alexanderplatz, vara l’avvento di un nuovo ordine europeo che, tuttavia, non sa come rappresentare: vede intorno a sé una sorta di “horror vacui” che viene riempito da nefandezze, neppure simpatiche. La sua voce è dolente, incredula, assume tonalità nuove, le inventa per esprimere una tristezza di fondo per le sorti dell’umanità. Il suo libro è una grande denuncia di un sistema che stritola gli individui. Franz Biberkopf, il protagonista che cerca di opporsi ad un sistema improvvisato, socialmente ingiusto, robotico, ala fine dovrà arrendersi all’evidenza dei fatti che vuole sconfitto il buonsenso.
Lo scrittore tedesco è vittima volontaria, è una sorta di martire, del meccanismo che costruisce ispirandosi alla realtà che lo circonda. Egli mette alla berlina un’anarchia che si arricchisce tramite la ricostruzione post-bellica del Paese secondo il concetto del “carpe diem”. Mancano validi controlli centrali, manca la guida, vincono gli individui spietati. Il successo viene festeggiato quasi fosse la ripetizione di quelli ottenuti cinquant’anni prima e culminati con i fasti, esagerati, della “Belle Epoque”.
Le considerazioni di Döblin usano il malessere dato dal clima culturale e civile approssimativo del primo dopoguerra per andare oltre la contingenza e arrivare sino ad analisi antropologiche. Va detto che questo dilatare le considerazioni, avvalendosi poi di valutazioni più dettagliate, è un portato della crisi decadentista di inizio secolo. La crisi decadentista altro non è che un residuo romantico toccato dal sospetto di impotenza nei confronti del Positivismo.
Il Positivismo è pratico, schematico e determinato, mentre il Romanticismo è contorto, complicato ed esitante. L’unica certezza ferma, nel secondo caso, è la fiducia nelle potenzialità umane e non certo in una sola come è nel caso positivista. Il Positivismo vince perché fa offerte concrete, ma il Romanticismo non perde, rimanda soltanto la sua vittoria a tempi migliori. Intanto, critica la situazione che vede l’uomo soggetto a “cose”.
Con molta passione ed altrettanto talento espressivo, Döblin insiste nella sua denuncia civile, ampliandola a dismisura, per nobili scopi, e sempre per nobili scopi, allontanandosi da un tentativo di disamina profonda, grazie alla quale siano superate le solite reprimende morali, reprimende che per quanto lo riguarda, non solo grossolane grazie ad un sincero impegno a risolvere il problema uomo. La cosa è tanto vera che nei suoi ultimi scritti, fra cui Il cuore dell’uomo e L’uomo immortale, Döblin si limita a proporre un ritorno nel grembo del Cristianesimo. L’unica salvezza sarebbe, per lui, la Chiesa, vista nella sua purezza originale.
Il ricorso alla religione non appare coerente con quanto espresso prima. Fra le pieghe delle descrizioni contenute in Berlin Alexanderplatz, esiste un risentimento che coinvolge ogni forma di potere, pura o impura che sia: il romanzo è una sorta di canto carnevalesco e funereo allo stesso tempo che di fatto riempie la mente e il cuore di suggestioni non ordinarie. Diventa poi difficile congiungere le mani, alzare gli occhi al cielo e disinteressarsi di ciò che avviene sulla terra, anche se Döblin fa tutto questo con intelligente abbandono (ma pur sempre d abbandono si tratta).