La parola scrivere designava in origine l’atto di graffiare o raschiare una superficie. Graphein in greco significa incidere, rimanda al gesto di imprimere segni sulla pelle di una superficie, siano essi immagini, pittogrammi o lettere di un alfabeto. Un verbo che allude alla vicinanza tra l’atto della scrittura e quello del dipingere.
Come la pittura, anche la scrittura, tesse un dialogo con lo spazio, disseminando i suoi semi verbali nel campo arato della pagina, affinché il senso germogli. Un gesto originario, insomma quello che Giovanni ingaggia nell’incontro con lo spazio pittorico. Un tuffo all’indietro, verso le origini. All’inizio c’è una distesa bianca, immacolata, quella della tela o del foglio di carta, in cui l’artista insinua il colore, con una sensibilità che si potrebbe dire quasi topografica. La superficie pittorica diventa la mappa di un mondo interiore concentrato ed essenziale, solcata da segni dinamici o forme che dischiudono contenuti simbolici.
Nei quadri di Giovanni le campiture di colore, definiscono due territori disgiunti, divisi da un’invisibile linea di confine, che separa due realtà tra loro. Quella linea invisibile racconta la storia di una discordanza che può rivelarsi feconda, se ascoltata. Senza la differenza infatti non potrebbe esistere nulla, sembra dirci questa linea. Non può darsi un alto senza un basso, un femminile senza un maschile, un pieno senza un vuoto. Ad ogni inspirazione segue sempre un’espirazione. La relazione tra gli opposti appare come la condizione indispensabile, affinché le cose possano apparire, venire all’esistenza.
L’opera diviene allora il campo, il terreno di scontro e di confronto, dove le tensioni fra i contrari si manifestano e cercano una sintesi che salvi entrambi. La profondità del dramma si stende sulla superficie, il conflitto viene per un attimo disinnescato per volgere alla ricerca di una realtà ordinatrice superiore, di una coscienza capace di ricomporre nel colore le lacerazioni, i dualismi.
Il senso di equilibrio, l’accordo viene apparentemente conquistato dalla stesura morbida e concentrata del colore, dal rigore geometrico dello sfondo. Zone di rosso squillante, campiture di nero, sorde, zone di bianco luminoso, separate tra loro da cerniere impercettibili intessono tra loro rapporti armonici, suggerendo una vicinanza con la musica – terreno tra l’altro intensamente frequentato da Giovanni. Su questo sfondo, momentaneamente pacificato, prende corpo il segno, dinamico, motorio, graffiato nella carne del colore. Linee nervose, schizzi di forme, cenni di figure, lettere e, a volte, simboli, carichi di energia e di moto fendono lo spazio, caricandolo di vibrazioni inconsce. La loro presenza abbozzata contraddice il rigore degli sfondi. Dalle tracce grafiche come pura energia motoria gradualmente la mano tende a comporre i segni in linee, in figure e infine in forme alfabetiche e simboli.
La lettera Y, che si distacca dall’armonia dello sfondo, sembra alludere al sentimento di una divaricazione che tende all’unità o viceversa al presentimento di un’unità primordiale, da cui si diramano biforcature. Possibilità che si aprono nella vita interiore e biologica degli esseri viventi.
Dalla lettera Y in altri dipinti per gemmazione sboccia la parola play. In inglese play significa suonare, ma anche fingere, recitare. La musica, quindi, da una parte, come a ricordare l’universo immaginato da Pitagora, imbastito su armonie planetarie, che si ordiscono su misure numeriche, simili a quelle acustiche. Ma anche il gioco, forse il suo contrario, ad evocare l’azzardo, l’apparente casualità contenuta in ogni avvenimento che riguardi la vita interiore e dell’universo. Le ramificazioni della vita, che si perpetua in una fatale apertura di possibilità.
Infine negli ultimi lavori affiora la presenza di un archetipo, la cui forma si precisa nel corso del tempo. Appare inizialmente come una fiamma dai contorni indefiniti per giungere nei dipinti più recenti, all’immagine di un frutto conico, molto simile a una pigna. Un simbolo che raccoglie l’esigenza di rappresentare la molteplicità nell’uno.
Il concretarsi di un bisogno di trascendenza, che richiama per la sua forma ovoidale, l’uovo cosmico dipinto da Piero Della Francesca nella Pala d’altare di Brera, emblema della resurrezione e dell’eterno. La pigna, un frutto generoso, capace di chiudere in un abbraccio la molteplicità dei fenomeni, di accogliere i semi delle realtà particolari all’interno di un tutto. Emblema di un desiderio o, forse, di una nostalgia dello spirito, terreno che noi contemporanei rischiamo di consegnare alla censura del materialismo.
Vanessa Sorrentino
Dal Catalogo ‘Continui spostamenti’ di Giovanni Ciucci - Danilo Montanari Editore 2010