MIHELE: experimental jet set, trash and no style_
Il centro di Milano, dopo le perversioni turistiche di rito e i giri fashion, offre lo spettacolo della gente che passa, con i loro codici dell’abbigliamento più o meno personalizzati, che delineano accessori must e tipologie umane. Molti tatuaggi tradizionali di colorature incredibili. Allargamenti alle orecchie di titanio. Gay bassi con la ciuffa, vestiti nei toni del sabbia e del jeans chiaro. Rasati di lato, possibilmente con l’occhiale a montatura nera. Ce ne sono un sacco, sembrano fatti con lo stampo.
E poi le fotomodelle. Tutte teenager, si aggirano intorno alle baracchine che vendono la macedonia e i centrifugati, con le loro gambe lunghe e sottili da trampoliere. Ma non hanno le solite bardate da star post-rock newyorkesi. Indossano tronchetti costosi e sformati, probabilmente di stilisti belga. Leggins neri, per mettere in risalto le zampine chilometriche e magrissime.
Sopra, maglioncini informi di cotone sintetico a rilievi, e motivi colorati geometrici. Oppure a fiori, con le perline. Talmente orridi che sembra trovati nelle buste di vestiti per i ciechi.
E così, dopo averle osservate, per associazione di idee, volente o nolente, mi balena davanti agli occhi Mihele. Con il suo maglione.
Mihele era un elemento introdottosi in una casa di studenti a Bologna, in un momento in cui il numero dei suoi inquilini era magicamente e repentinamente shiftato da sette a quindici, arricchendosi di fricchettoni spagnoli, fuoriusciti leccesi, punkabbestia che facevano moneta davanti al supermarket et similia. In mezzo a questo flusso umano c’era anche Mihele, che in realtà si chiamava Michele ma veniva da Firenze, e lo capivi non appena si presentava. Aprivi la porta di notte e rannicchiato nel buio sul divanetto del corridoio, con i suoi occhi da lemure e la sua pancetta da bimbo, c’era Mihele che strimpellava la chitarra. Mihele non studiava, non lavorava, non andava al cinema e non faceva sport. Di tanto in tanto, per contribuire all’economia domestica, veniva spedito a rubare al supermercato. Mihele imboscava la refurtiva in un cappotto enorme, grigino, probabilmente di suo nonno, con le tasche bucate. Tornava con la fodera piena di vaschette di insalata di pesce, pasta fresca, forme di parmigiano e tranci di salmone da mezzo chilo. A parte questo cappotto anti-crisi prima della crisi, il suo abbigliamento, in mezzo ai pantaloni Caterpillar, le scarpe da skate e i teschi studenteschi dell’inizio degli anni Zero, era molto caratteristico. Mihele indossava SEMPRE dei pantaloni di velluto a coste color beige, con le gambe che si stringevano progressivamente e il culo un po’ a sbuffo, e un maglione. Il maglione-Mihele. Era di lana, industriale, con i pallini da usura, a righe colorate e motivi tipo le stelle di neve e i rombi. La cosa più allucinante era che sembrava un maglione normale, ma arrivava fino alle ginocchia. Come se qualcuno lo avesse lavato, non strizzato e steso ad asciugare sul filo del bucato.
Pensavamo all’epoca che Mihele fosse rimasto indietro di dieci anni, una specie di rigurgito grunge in ritardo. Non avevamo capito nulla. Mihele non era indietro, ma avanti di dieci anni. Ora le modelline milanesi farebbero a botte per il suo maglione.
Ma mi dico che forse ho avuto un’allucinazione. E allora mi metto a studiare la fauna di Modena. Un gruppuscolo di tre ragazzine. Ce n’è una con capelli biondo miele a boccoli che si stima un sacco. Indossa un paio di pantaloni blu elettrico acqua in casa, scarpe maschili con calzini a righe viola verde e bianco. Una t-shirt larga e corta, con le spalle cucite in basso e le maniche al gomito, a righe come le calze, solo molto più grosse. Un’altra che è andata a rusgare nelle buste per i ciechi.
Quando poi ne vedo una con i fusò grigi a roselline, ho la conferma che l’anti-stile di Mihele è diventato tendenza.
Sembra essersene accorta anche Vivienne Westwood, che nella sfilata autunno-inverno 2010-2011 ha fatto spuntare i modelli in passerella da una casetta per barboni di cartone, con materassi di gommapiuma arrotolati sotto il braccio. Uno di loro sfoggiava perfino un maglione beige con i daini e le stelle di neve, lungo fino alle ginocchia. Mihele rules.
Se uno degli imperativi della moda è fagocitare tutto ciò che è diverso da lei, trasformando il brutto in bello grazie allo stile e alla perfezione dei corpi di supporto, ora la moda sembra focalizzarsi sui vestiti dei vecchi. I vestiti che vedi addosso ai veterani, che la mattina alle nove partono col bianco corretto aperol, e se lo chiami spritz ti ridono in faccia. La ditta Worishofer ha immesso sul mercato scarpe pseudo ortopediche con il sughero, tutte traforate di buchetti, pari pari alle scarpe che si mettono le badanti. Sulla comunicazione delle ci sono foto di star di Hollywood che le indossano, fra cui Kristen Dunst.
E poi, se la moda deve precorrere il futuro, guardare avanti, non dimentichiamoci che il prossimo anno è il 2012.
Sappiamo tutti che il rischio maggiore della crisi è quello di preannunciare la guerra. Un po’ come successe nel ‘29. O nel 1819. O nel Medioevo. E quando la civiltà giungerà al capolinea, e non ci sarà più elettricità né riscaldamento né cibo né niente, noi saremo tutti disperati, sporchi, denutriti e vestiti come dei barboni. Ma perlomeno saremo fashion.
Luiza Samanda Turrini