// Focus on artist // : La metafora pittorica postmoderna di Francesco Cuna

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Protagonista della rubrica “Focus on artist” di Lobodilattice - dedicata agli artisti italiani e stranieri che si distinguono per la valenza innovativa della loro opera nel panorama artistico contemporaneo – è oggi Francesco Cuna (Galatina, 1978). Il gioco dei limiti tra finzione e realtà, il rapporto tra immagine e memoria collettiva, le diverse prospettive generate dalla visione, la metafora come principale veicolo di comunicazione artistica, le contraddizioni della postmodernità soprattutto nell’ambito dell’informazione: ecco l’architrave tematico della poetica pittorica generata dall’artista pugliese. Il linguaggio pittorico di Cuna è caratterizzato da una notevole profondità espressiva, quasi metafisica. Rafforzata da un’incisiva neutralità cromatica nello stile.

Il tuo universo artistico è prevalentemente “antropocentrico”: gravita intorno all’uomo, alla sua vita quotidiana, ai suoi mondi interiori. Ma hai dichiarato di essere lontano da qualsiasi forma di realismo e di voler narrare attraverso la metafora, il mondo non visibile. Ci parli della tua ispirazione artistica e dell’uso della metafora nella tua arte?

Le cose d’arte sono specchi nei quali ognuno vede ciò che gli somiglia” diceva Constantin Brancusi, e così il mio lavoro è come uno specchio: esiste fintanto che ci guardo dentro.Ma l’obbiettivo del mio lavoro non è mostrare la mia visione del mondo delle cose (per quanto possibile), bensì cercare di presentare un’alternativa di lettura dell’immagine che lo rappresenta per il collettivo; in questa precisa misura la metafora è il mio congegno preferito.

Ogni immagine riconoscibile lascia uno spazio intermedio tra realtà e finzione, ed è quello che cerco in ogni opera. Per questo il mio linguaggio stilistico deriva dalla fotografia. Mi affascinano la miriade di documenti visivi d’archivio, specie quelli che in apparenza hanno smarrito un concreto riferimento oggettivo alla realtà ed alla motivazione che li ha generati. Il mio lavoro ha a che fare con la memoria collettiva quindi, o meglio con gli inganni visivi del ricordo.

Cerco di trasferire all’opera uno strato di “già visto”, riconoscibile ed a tratti rassicurante per l’osservatore con lo scopo poi di rivelarne, nello svolgimento, una seconda possibile funzione destabilizzante (magari quella reale).

Occorre un lungo lavoro di rimozione per arrivare al risultato che desidero. Talvolta alcune storie meritano di essere riportate alla luce così come sono solo attraverso un sistema di riferimenti visivi, a volte non mi interessa far intravedere le tracce storiche sottostanti che così assumono forma di nebulosa reminiscenza. Oppure, nei casi migliori, di simbolo.

A proposito della pittura come linguaggio espressivo, cosa pensi di chi considera questa modalità artistica come obsoleta?

La pittura ed il disegno hanno un ruolo predominante nel mio intento artistico. Oggi, chiunque affermi che la pittura sia antiquata come pratica, rischia egli stesso di essere obsoleto: la si potrebbe semmai considerare, senza paura di sbagliare, arcaica. Nata con l’uomo morirà con esso.

“In pittura non c’è niente di sbagliato”, un principio che hai interiorizzato. Perché?

Superati cronologicamente gli stilemi bizantini, ogni pennellata è perfetta nella misura del coraggio di chi la pone strato su strato.

Hai definito la tua arte come presentazione più che come rappresentazione, puoi chiarire questo concetto?

Il termine “rappresentazione”presuppone la ri-presentazione di una cosa pre-esistente. Il risultato non può che essere un simulacro fantasmagorico di un “oggetto”: un paesaggio, una mela, un volto di una certa persona etc. In altre parole la “rappresentazione” in pittura è una raffigurazione dei fatti fondata sulla struttura logica del linguaggio. Il mio modo di vedere si colloca in una posizione antitetica riguardo alle affermazioni sopra elencate.

Pur vestendosi di forme riscontrabili in natura, la mia pittura si pone come presentazione, come installazione, ammiccando al simbolo ed al segno e non all’aspetto più descrittivo della pratica.

La scelta cromatica per le tue opere ricade spesso su toni neutri e cupi. Qual è il significato, se c’è, di questa preferenza?

In molti casi prediligo un monocromo austero per spegnere in principio le facili derive emotive che di solito si rischiano di fronte ad un’opera.

Nella personale “Verremo tutti dimenticati”, che si è svolta l’anno scorso a Calimera, hai esposto lavori su carta. Qual è la tua concezione del disegno come linguaggio artistico rispetto a quello pittorico?

Il segno senza ombra di dubbio precede qualsiasi intenzione. Si colloca tra realtà e presentazione. È molto vicino al pensiero. Lo scheletro della pittura.

La mostra si basa tematicamente sull’informazione nell’ “era dell’accesso”, come Jeremy Rifkin ha definito la postmodernità in un suo saggio sulla new economy. Puoi argomentare le tue riflessioni sull’informazione nella società liquida che genera mancanza di acquisizione di senso e una memoria storica distorta?

Con “Verremo tutti dimenticati” ho voluto riflettere sulle modalità di acquisizione dell’informazione nel contemporaneo: una stratificazione incompleta, in alcuni casi inesatta, e frammentata di elementi che costruiscono un’idea spiazzante ed apparentemente incomprensibile di ciò che accade nel mondo.

In questa stratificazione in continuo ciclo e riciclo la notizia, per rilevante che sia, perde immediatamente attrattiva e non costruisce memoria, solo volubile sensazione.

A tuo avviso l’arte è rivoluzionaria?

L’arte crea mondi. La rivoluzione ne distrugge alcuni.

 

 

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