// Focus on artist // : Le suggestioni pop e il dinamismo del live painting nell'opera di Massimo Pasca

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Considerato uno degli eredi artistici di Keith Haring, Massimo Pasca unisce - nella sua opera - il vitalismo pop delle cromìe alla morbidezza del tratto, vicino al linguaggio del fumetto ibridato. Il percorso artistico del live painter e disegnatore salentino parte dalla passione per il muralismo messicano e si arrichisce, durante la formazione universitaria a Pisa, di influenze musicali e artistiche della cultura reggae e hip-hop. Il rapporto dinamico col pubblico costituisce un elemento centrale dell’opera ironica e dissacrante di Massimo Pasca: i suoi live painting sono infatti vere e proprie performance artistiche. Mc, dj e musicista, Pasca ha collaborato come illustratore con artisti di spicco del panorama musicale italiano quali Piero Pelù, Negrita, Marta sui Tubi, JoyCut, Roy Paci ed altri ancora.  Lobodilattice l’ha intervistato, nella rubrica “Focus on artist”, dedicata agli artisti più innovativi della scena nazionale ed internazionale.

Nell’ambito della tua formazione artistica hai introiettato la concezione dell’arte come non elitaria ma fruibile da tutti. Un concetto espresso dal tuo maestro spirituale Keith Haring, di cui sei considerato uno degli eredi a livello artistico. Puoi approfondire questo principio?

Nella metà degli anni '90 sono arrivato a Pisa per studiare alla Facoltà di Lettere, le mie giornate erano fatte di lezioni di Storia dell’arte, ma anche di occupazioni in facoltà, redazioni di giornali universitari,  esperimenti di teatro, conoscevo i  primissimi circoli Arci in cui si promuoveva cultura e idee, i centri sociali, cose a me sconosciute che arrivavo dall’Istituto Tecnico Agrario di Lecce, ma erano anche giornate di lavoro, disegnavo vetrine di Natale e murales nei pub, per avere più soldi in tasca. Nel frattempo stringevo amicizia con le crew di djs e writers della zona, e grazie alla mia abilità al microfono come Mc, ero sempre in contatto con tutto l’ambiente che amava la black music. Quell’ambiente e quei bravissimi dj’s, writers e ballerini hanno influenzato tanto il mio percorso. Nel frattempo studiavo arte ed entravo nei meccanismi della metodologia, ero molto curioso e cercavo di andare oltre i saggi su Caravaggio e i corsi monografici sul Manierismo, in città trovavo la Torre e il Cimitero monumentale in Piazza dei Miracoli, trovavo alcune delle espressioni medioevali migliori del nostro paese, ma anche il murales di Keith Haring, “Tuttomondo” nella zona della stazione. Ne ero incantato, avevo 19 anni e lo ricopiavo sulla copertina dei libri fotocopiati che dovevo studiare per gli esami. Cercavo di capirne il movimento, studiavo le linee.  Tutto questo non aveva niente a che spartire con gli ambienti “chiusi”, e ha formato in me l’idea che l’arte per essere tale non poteva essere assolutamente elitaria. Un po’ come il simbolo di Pisa, la torre, l’arte era li sempre, ti dava una sensazione di precaria bellezza ma era per tutti.

Hai dichiarato di amare l’arte dei muralisti messicani, che contiene messaggi sociali. L’arte, a  tuo avviso, può cambiare il mondo? L’arte, per Massimo Pasca, è rivoluzionaria?

Il muralismo messicano è stata la mia prima passione, ed è quella che ancora sopravvive, Siqueros, Orozco, Rivera e Frida,  Posada che era un incisore,  con le loro pennellate e i loro proclami, con l’intreccio tra vita e arte, i loro richiami alla cultura Maya, la forza del colore, il rapporto tra vita e morte, privato e pubblico, mi hanno sempre attratto. C’è una vasta letteratura che potrebbe rispondere meglio di me alla domanda che mi fai.

Sono sicuro che l’arte sia un’indagine intima e personale che ha bisogno di confrontarsi con la realtà e la società: è un continuo andare dall’io personale al nostro ruolo nella società, io credo che questa sorta di percorso tra intimo e pubblico debba scardinare l’ordine prestabilito, magari solo il tuo, quello di cui sei troppo convinto. Un artista che non si accontenta è sempre un rivoluzionario.

Come mai hai scelto proprio Pisa come meta per i tuoi studi universitari? E cosa rappresenta per te Pasolini visto che gli hai dedicato la tesi di laurea in Conservazione dei Beni Culturali?

Ho scelto Pisa perché l’indirizzo storico-artistico di Beni Culturali a Lecce non era ancora attivo. E soprattutto perché ho sempre creduto che la Toscana avesse qualcosa in più rispetto alle altre regioni da insegnarmi, in relazione alla mia passione per l’arte. Il dipartimento di Storia dell’Arte on cui studiavo mi ha dato una visone d’insieme che mi è servita a capire che tutte le discipline si contaminano, e che la curiosità e la sperimentazione sono fondamentali. Non è un caso che da quel dipartimento sono usciti fuori tantissimi artisti e non solo io, tutto quello studiare e capire, se avevi da dire qualcosa non poteva che portarti in quella direzione. Devo molto a quegli insegnati  e ai miei genitori che me lo hanno permesso. La tesi sul cinema di Pasolini è stata una conseguenza,  per me è una sorta di maestro ideale, non c’è stata disciplina che non abbia affrontato con la stessa intensità, interessandosi anche a tutto quello che era la società che lo circondava, e partendo da essa. Il suo cinema è pieno di riferimenti pittorici, ho studiato i costumi disegnati da Danilo Donati e ci ho trovato dentro il dialogo ideale tra la storia e società, ogni film era una scoperta che chiudeva qualche cerchio aperto dagli esami che avevo sostenuto precedentemente.

Dj, Mc e musicista oltre che live painter: hai influenzato la scena underground pisana fin dagli anni  ’90, fondando il gruppo dancehall reggae/raggamuffin’ degli Workin’ Vibes e hai portato le tue performance artistico-musicali in tutto il Salento. Innumerevoli sono inoltre le tue collaborazioni artistiche con musicisti del calibro di Piero Pelù, Negrita, JoyCut, Roy Paci, Bandabardò, solo per citarne alcuni. Come nasce questo tuo forte legame tra musica - in particolare il reggae - e creazione artistica?

Sono stati due percorsi separati che per anni hanno corso parallelamente. Con la musica ho calcato palchi enormi che mi hanno regalato grandissime sensazioni, ho cantato  davanti a migliaia di persone, e macinato chilometri dalla Calabria a Trieste, dalla Sardegna alla Svizzera, per anni. Furgone e taccuino, e sempre un disegno a pennarello lasciato nei camerini dei locali.  Il reggae per me non è solo una musica: è una filosofia. Il reggae italiano, soprattutto quello delle Posse da cui nasco, è partito comunicando un certo modo di vivere la vita e dei valori che oggi, dispiace dirlo, sono parecchio cambiati. Oggi faccio piccole performance di Spoken Word, dove la gente ascolta ancora le parole e i concetti, e faccio tanti slam poetry, invito i poeti e gli artisti che mi piacciono nei miei spettacoli e continuo a sperimentare il dialogo tra arte e parola. Di quei dieci anni è rimasta la consapevolezza che fare un live painting o un concerto è praticamente la stessa cosa, devi arrivare alla gente e devi avere qualcosa da dire, farle tutte e due  nello stesso spettacolo è la mia nuova sfida. Se ci pensi lo fa anche Lee Perry da anni, e moltissimi musicisti sono anche ottimi pittori o illustratori, quindi non invento nulla, il merito è solo quello di rischiare, di sperimentare, atteggiamento poco comune.

Il pubblico è parte integrante dei tuoi live painting: hai infatti precisato che, durante la creazione della tua opera, esso influenza il processo creativo, visto che le distanze con l’artista vengono comunque annullate. Come nasce e come si sviluppa questa interazione?

Il pubblico è la mia energia, gli occhi addosso, le interruzioni e le domande che mi fanno quando lavoro dal vivo sono il mio spartito invisibile. Nei live painting non ho nessuno schema, nessuna icona da realizzare, nessun traguardo e mille percorsi,  molti di questi iniziano e finiscono grazie al pubblico. Il pubblico è il mio migliore amico surrealista. Disegno e dipingo dal vivo dal 1995: tutto è cominciato più di 20 anni fa al Fico D’india sullo Jonio durante un dj set, non mi sono più fermato. Oggi mi pagano per farlo, all’inizio dovevo convincere i locali e i musicisti, gli dicevo: “facciamo così, io inizio se non ti piace smetto!”.

Alla fine della serata sia i musicisti che i proprietari dei locali mi chiedevano di acquistare il lavoro!

La tua arte è stata definita come risultato di un’originale contaminazione tra fumetto e pop art, caratterizzata da un’ironia di fondo che alleggerisce scene a volte drammatiche, contenenti un messaggio sociale. Ci parli del tuo percorso artistico che appunto spazia dal surrealismo a influenze pop?

Se non sono lavori nati dal lasciarsi trasportare dalle sensazioni di un live painting, i miei lavori sono icone pop che devono scuotere lo spettatore, farlo riflettere, con la consapevolezza però, che per quanto tu voglia dargli una direzione, l’opera una volta finita vive di vita propria, e lo spettatore la completa, la modifica e la fa rivivere grazie al suo bagaglio emozionale e culturale. Il mio stile fatto di rimandi, e disegni affastellati che richiamano il mondo del fumetto, si presta ancor di più a questo processo.

Dove sta andando, a tuo avviso, l’arte contemporanea, anche considerando il prevalere del mondo virtuale su quello reale? E cosa consiglieresti agli artisti in erba che appunto intendono intraprendere questa via?

Non so di preciso dove stia andando l’arte contemporanea, vedo tantissime cose che mi piacciono, per me l’arte deve ancora emozionare, scuotere, ci deve essere una differenza tra un opera che migliora il mondo come accade nella scienza e con la tecnologia, e un’ opera d’arte. Mal sopporto le creazioni piene zeppe di tecnologia che si fermano alla novità tecnologica stessa. Ho avuto la fortuna di essere allievo della Professoressa Sandra Lischi: i suoi saggi come “Metamorfosi della Visione” e tanti altri scritti mi hanno dato gli strumenti per capire quando sono di fronte a un opera d’arte che fa della tecnologia uno strumento a servizio dell’espressione e quando è solo tecnologia che pretende di essere  arte.

Agli artisti che stanno cominciando potrei dire tante cose, e consigliarne davvero poche, l’unica cosa utile che mi sento di dire è quella di non essere schiavi del fattore riconoscimento, che oggi grazie ai social è ancora più evidente, uno stile proprio si forma solo con il tempo, una sorta di tempo personale, che non è misurabile e non ha nulla a che fare con i complimenti e con gli altri. Anche capire che l’arte non è la propria  strada è un successo, perché può lasciare spazio a mille altre cose.

Bisognerebbe dire: “Sono un artista” quando si è riusciti a dire almeno mille volte: “Sono stato artista e forse non lo sono più!!!”. Quello che voglio dire:  se segui il tuo demone prima o poi lo sorpassi e ti segue lui, se questo non avviene non è un dramma, anzi magari è una liberazione.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Come sempre ho in programma tante mostre, e tanti painting, ho già appuntamenti fino al 2019, dirne alcuni sarebbe sminuirne altri.

Quello che accomuna i progetti è che dopo tanti anni posso ancora contare sul mio essere indipendente, mutante e sfuggente da schemi e gabbie nelle quali con l’aumentare degli apprezzamenti inevitabilmente si finisce. Come diceva bene Andy Warhol , molti non vogliono la tua opera ma la tua “aura”.

 Fortunatamente il mio carattere “difficile” mi aiuta, da sempre non ho nessun interesse a “svoltare”, perché magari dietro la svolta c’è un vicolo chiuso. Voglio percorsi e processi, e i traguardi preferisco tagliarli ad occhi chiusi. Ci vuole almeno il triplo della forza, ma è il prezzo da pagare.

 

http://www.massimopasca.it/index.php

 

 

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