La rubrica “Focus on artist” presenta un artista poliedrico, tra i più originali e quotati nel panorama dell’arte contemporanea italiana: Dario Agrimi. La ricerca, intrapresa dall’artista di origine abruzzese, spazia tra i diversi linguaggi e tecniche dell’arte, dalla scultura alla pittura, dalla video-arte all’installazione. Ricchissimo il suo curriculum, tra collettive e personali: recentemente ha inoltre presentato due opere scultoree di fortissimo impatto emotivo alla Fondazione- Museo Pascali di Polignano a Mare (Ba): “Limbo” e “Non dice chi è”. Lobodilattice ha intervistato Dario Agrimi approfondendo in particolare i temi relativi alla sua personale concezione dell’arte.
Nell’opera “Limbo”, in cui ritrai l’uomo-artista che annega in un letto di petrolio, rappresenti il concetto di agonia. Oltre a questo, la metafora che hai simboleggiato si riferisce al sistema dell’arte che soffoca l’essenza creativa?
“Limbo” è frutto di una ricerca molto lunga e dettagliata: l’uomo rappresentato non sono io né l’uomo-artista ma potrebbe essere chiunque. Dalle misure adottate e da tanti altri particolari si evince che ho inteso ritrarre un individuo medio. Ha tutte le caratteristiche per essere chiunque. Altezza media, lineamenti non marcati, nulla di evidente per concentrare l’attenzione sul complesso dell’opera. La mia non è una critica né al sistema in generale, né al sistema dell’arte. In realtà non mi schiero: il compito dell’artista è creare, non spiegare quello che fa. Sono i critici e i curatori a fare questo lavoro. Il mio approccio verso l’arte è scientifico, non artistico. Faccio ricerca e sperimentazione continua, l’arte premia l’idea e quindi il risultato. Il risultato è frutto della sperimentazione ed essa è una caratteristica della scienza. Una parte del mio lavoro si basa sull’analisi dei comportamenti umani, sulle mancanze ed i difetti e sull’osservazione attenta del contesto in cui ogni individuo è inserito. Non aspetto certo l’illuminazione. A mio avviso, infatti, parte integrante dell’opera d’arte è il punto di vista dello spettatore, la sua idea personale in merito. L’opera esposta alla Fondazione- Museo Pascali, sul tema del Carnevale, esprime l’idea dell’opposto rispetto alla positività della festa: è il limite dell’infelicità rappresentata da Lucifero che, mascheratosi, tenta di tornare in paradiso. Per giungere all’idea ho osservato attentamente tutti gli aspetti del Carnevale analizzandoli uno per uno. Per giustificare o provare qualunque cosa necessita del suo contrario. Senza il bene non può esistere il male e così via. Recentemente ho capito che l’artista è come un serial killer: non può sfuggire alla propria natura. Deve fare quello che fa. E’ patologico. Chi dice che nell’arte sia stato fatto tutto si sbaglia. Si potrà affermare una cosa del genere solo quando il genere umano cesserà di esistere. Credo sia giusto osservare e non classificare un artista paragonandolo ad un altro più noto. Chiaramente questo è il mio punto di vista. Bisognerebbe evitare le omologazioni, i clichè. Tornado alla domanda, toccando il tema dell’agonia credo che, se l’opera funziona, lo spettatore dentro essa vede ciò che vuole vedere. Chiaramente si può essere indotti ma una buona parte del lavoro lo fa chi guarda. Qualunque cosa si trasmetta va bene. L’importante è che non si rimanga indifferenti.
La tua ricerca è profondamente caratterizzata da una costante e forte provocazione. Cos’è per te la provocazione e che significato ha nell’epoca attuale?
La provocazione, purtroppo, ha in sé il limite del luogo in cui viene fatta. Nel mondo dell’arte è necessaria, soprattutto in Italia. Il panorama in cui viviamo è quasi desertico: in Puglia ad esempio l’unica realtà d’arte contemporanea riconosciuta a livello internazionale è il museo Pascali. Sono convinto che ogni situazione di desolazione abbia enormi vantaggi. L’importante è riuscire nella creazione di un’oasi. Se non si riesce è inevitabile soccombere. Quindi ha dei rischi ma il gioco vale la candela. Servono radici forti per sostenere un qualcosa che debba durare nel tempo. Anni ed anni fa qualcuno, voltandosi a destra, vide un deserto, poi voltandosi a sinistra ne vide un altro e pensò giustamente di farci una città nel mezzo. Quella città ora è Las Vegas. Prima, dove ora c’è una metropoli, c’era il nulla. A volte basta osare. Dunque l’approccio all’arte dev’essere veramente forte. La provocazione colpisce: si ricordano cose che creano microtraumi. Noi siamo il frutto della necessità e di traumi che subiamo durante l’esistenza. Per creare l’opera d’arte è necessario lo spettatore, l’arte in se non serve a nulla se non a chi ne ha l’attitudine. Senza spettatore l’opera non è creata, l’artista è inutile se non c’è qualcuno che goda del suo prodotto. L’arte è diretta a tutti, non solo agli addetti ai lavori e funziona se riesci a colpire chi la osserva.
L’arte a tuo avviso può essere rivoluzionaria?
E’ rivoluzione per chi la fa. Quando si parla di arte si deve avere coscienza del fatto che non è un bene di prima necessità. Il suo valore è dato dal fatto che più una cosa non serve più vale. Immaginiamo una macchina di lusso o una villa con piscina, oppure un guardaroba pieno di vestiti. Per fare la spesa va bene un’ utilitaria normalissima, per lavarci possiamo utilizzare la doccia, ed i vestiti che usiamo li indossiamo uno alla volta. All’aumentare dell’inutilità c’è l’aumentare del valore .
Se si intende definire la rivoluzione nel senso politico del termine penso che in arte non si debba mai schierarsi. Sarebbe limitarsi. Perdere una parte di potenziali committenti e sostenitori. Perché privarsi di metà della torta se puoi mangiarla tutta?
L’arte è sublimazione? Dev’essere elitaria o rivolta a tutti?
Tutto quello che facciamo è sublimazione. Il cleptomane ruba per sublimare, con quasi incoscienza, la sua interiorità. Si tratta del naturale corso delle cose.. L’arte è il punto di vista di chi la fa. Il suo parere. Ognuno ha il proprio. L’artista è un generoso. Dona la sua opinione a tutti. Se non lo fa dovrebbe farlo.
Torniamo al tuo approccio scientifico verso l’arte. Quali sono i modelli comportamentali a cui ti riferisci?
Noi siamo abituati ad agire in modo meccanico anche nel rapportarci alle persone. Se, ad esempio, vivessimo nello stesso condominio di Madonna, la cantante, il primo giorno saremmo emozionati dalla sua presenza. Il giorno dopo ancora ci vanteremmo con i nostri amici, ma dopo una settimana, quando Madonna rompe le scatole con lo stereo ad alto volume, cessa di essere una star e diventa il vicino maleducato che tutti prima o poi incontrano. Se si mantiene una distanza con ciò che si ammira o ci stimola, il nostro interesse resta immutato. Quando è a portata di mano il suo valore muta. Ma solo per noi. Madonna non smette di essere Madonna perché viene ad abitare nel nostro condominio. Noi desideriamo solo cose che non abbiamo. Quando le otteniamo il nostro interesse è catturato da altro. Per questo non credo nel matrimonio. Si tratta dunque di modelli comportamentali automatici dell’umanità. La maggior parte della gente è meccanizzata, non ha consapevolezza.
Prendendo coscienza del fatto che siamo preimpostati dalla società in cui viviamo cerco di studiare il comportamento in modo da intuire anticipatamente quelle che potrebbero essere le reazioni di chi osserva i miei lavori. I modelli comportamentali sono tantissimi Attraverso l’osservazione individuo limiti ed insicurezze e cerco di trasferirli nel mio lavoro. Mi rendo conto che detto in questo modo è poco chiaro ma basterebbe analizzare la parte più concettuale del mio lavoro per capire di cosa parlo. Per capire l’opera dell’artista non si deve parlare con l’artista, si deve solo guardare le tre fasi che lo caratterizzano. Il passato, il presente e come si accinge a lavorare per il futuro. Cosa poco intuibile a volte.
Quali sono gli artisti a cui ti sei ispirato quando hai iniziato a fare arte?
I miei modelli sono tutti quelli che mi hanno fatto capire come non sarei dovuto essere. Le persone da evitare per poter ambire al meglio. Ho analizzato e studiato per anni il peggio ed il meglio dell’arte contemporanea. Trovare il top è facile, ma credo non si debba mai sottovalutare il peggio. Il primo è sempre una conseguenza del secondo. Il detto “chi si accontenta gode” è stato inventato dagli inetti per giustificare la loro mancanza di successo. Chi si accontenta invidia chi non lo fa perché chi non si accontenta cambia il mondo.
Quali sono i nuovi progetti a cui stai lavorando?
Lavoro sempre a più cicli di opere contemporaneamente: se dicessi di cosa si tratta rovinerei la sorpresa ai futuri spettatori. Il fattore sorpresa è parte integrante del mio lavoro, non potrei mai privarmene. Quindi chi vivrà vedrà.
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