UN TRENO PER L’ANIMA
Antonio Buttitta e la sua “Ballata di un treno lento”
Luisa Turchi
Antonio Buttitta e il suo primo libro d’artista.
Non solo un fotografo, ma anche un narratore.
Un percorso artistico che l’ha portato a conoscere ed interiorizzare maestri della fotografia e del cinema, da Cartier Bresson a Robert Capa, da Frank Horvat a Sergio Larrain, da William Eugene Smith a Francesc Català Roca, da Frank Capra a Jean Renoir, da Michelangelo Antonioni a Luchino Visconti, da Lech Majewski a David Lynch.
Ballata di un treno lento, in uscita a dicembre, è infatti più di un catalogo di immagini – corredato dagli interventi esplicativi del critico d’arte Paolo Levi, del regista Mauro Conciatori e del docente di Visual Storytelling Roberto Malfagia – ma è un libro che tramite il chiaroscuro della fotografia e i versi poetici dell’autore racconta di una avventura unica e un po’ retrò, ma che allo stesso tempo riguarda metaforicamente ognuno di noi.
Perché quel “treno” di cui scrive Buttitta, e che fa la sua apparizione nel libro attraverso il bianco e nero delle sue immagini fotografiche, è in realtà il treno della vita stessa che si manifesta, in tutta la sua grandezza nonché nelle sue finzioni e contraddizioni, la cui locomotiva è diretta verso una destinazione ignota, o meglio, conosciuta solo a Dio.
Attraverso il principio dell’immedesimazione catartica, il lettore, come il protagonista della ballata, all’uscita da un vecchio cinema e durante il Carnevale di Venezia, si imbatte in una maschera, la quale lo introduce nel mistero, di chiaro sapore bergmaniano. L’assolo di un pianista in un locale suggella l’inizio della “ballata del treno lento”, che si materializza come un mezzo di locomozione a vapore, contraddistinto da quel Shùffata – Schuffàta – Shùffa di eco futurista. Chi legge si ritrova così a viaggiare, all’improvviso, nel vagone di terza classe di un treno che fu, e ad addormentarsi, divenendo a sua volta protagonista passivo ed attivo delle vicende che gli si presentano, e degli incontri apparentemente fortuiti ma rivelatori che gli capitano. Ecco allora un bluesman in attesa di suonare il suo ultimo concerto che lo mette in guardia dal peccato, una bimba alla quale un signore che “ha dentro un lupo grigio col veleno nei suoi occhi” ha rubato il suo Natale, privandola della sua innocenza, e un’algida e famosa attrice di teatro, che non può trovare ristoro in nessun drink, poiché non ci si può dissetare in corsa. Come a dire che la celebrità porta con sé compromessi, dettati dall’irrequietezza e dall’incontentabilità, ovvero dall’incapacità di trovare mai un vero appagamento spirituale.
E ci si chiede allora come può essere “lento”, quel treno, che sembra andare invece così veloce, o come possa finire in un binario morto, come vorrebbe un incombente Mefisto, pronto a ricordare qual è il destino ultimo dell’uomo sulla strada ferrata.
Quel treno che, come testimonia la grottesca fissità di ieratiche vecchie bambole, ha molti piani, forse tanti quante sono loro, oppure infiniti, come infinito è il calcolo delle probabilità. Sono i piani dell’immaginazione e dell’equivocità nascosta nel reale.
Come afferma giustamente Paolo Levi, si tratta di un “viaggio attraverso l’attimo emotivo in un contesto apparentemente reale” e della “rivelazione di un’atmosfera in verità del tutto onirica”, quindi tempo e spazio appaiono dilatati all’inverosimile.
Non per nulla secondo il regista Mauro Conciatori, le fotografie di Buttitta, “immagini statiche che ci fanno immaginare percorsi cinematografici” e che hanno “la forza evocativa propria del teatro kabuki”, danno il via ad una nuova sintassi in un percorso che guarda al passato e a prima dei fratelli Lumière, reinterpretandolo e recuperandone in ultima analisi tutta la poesia, in un mondo di esasperazioni ipertecnologiche; la narrazione che le accompagna riporta infine “il lento treno alla recherche di ciò che in fondo siamo”, ovvero “umani sempre alla ricerca di una verità che non troveremo mai”. Almeno nella sua interezza. Ma, come puntualizza Roberto Malfagia, “la lentezza” è anche il tempo necessario alla comprensione e alla ricostituzione dei “frammenti” di realtà caotica, che condurranno comunque il protagonista al recupero di una fede arcaica.
Non diremo al lettore come si farà, tuttavia, a scendere dal treno dell’ambiguità e dell’incertezza, per non rovinare la sorpresa. L’arcano risiede nel particolare e nella fantasia assoluta dell’autore, ma il mistero del viaggio alla fine rimane e, come ammonisce il vecchio bluesman, non resta che andare a leggersi il versetto biblico di Isaia 55, che non compare nella narrazione del libro e di cui citeremo per comodità solo la frase “ i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie”. Come a dire qualsiasi cosa facciate, tanto Dio ha sempre l’ultima parola.
In appendice, la fotografia di un “bianco e saggio ulivo” al tramonto, la cui chioma e radici sono un tramite riconosciuto tra cielo e terra.
I lavori di Antonio Buttitta sono online su vimeo.com/antoniobuttitta