L’impressione è che spesso la chiarezza espositiva di Francesco De Sanctis (1817-1883) sia pari alla giustezza delle opinioni espresse. In altre parole, la sua prosa non è un linguaggio di comodo, ma un mezzo limpido di scavo per arrivare ad una tesi la più corretta possibile. Meno difficile scrivere con la copertura di un metodo convenzionale, legato ad un vocabolario prefissato e cristallizzato in una sacralità precostituita (in sostanza, uno scudo pregiato) da cui attingere con sicurezza parole e concetti adatti allo scopo (così facendo, tutto quanto rischia di rimorchiare un’inerzia speculativa che di certo non fa bene alla conoscenza).
De Sanctis si staccò presto dal preziosismo e dalla retorica di un pur rispettabile Basilio Puoti per affrontare, con prosa colloquiale desunta dalla frequentazione della letteratura illuministica, il mondo letterario italiano con mentalità nuova, costruttiva. Non è che preziosismo e retorica significhino di per se stessi un affossamento del sapere o il suo relegamento in un’oasi chissà quanto avvicinabile, è che le due cose vanno viste principalmente come un riferimento, come la stabilizzazione di un codice affidabile, fatto di serietà e di rigore, e non come un approdo speculativo granitico. Le due cose, usate in maniera sproporzionata – fenomeno facilmente percorribile – crea sovradimensioni che, trascurate, portano ad una indebita decorazione espressiva. E’ un rischio che De Sanctis non corre per l’incedere speculativo ed etico che pone al servizio del suo pensiero. Qui c’è della modernità assoluta. La scrittura del Nostro va oltre le pur belle e consistenti infiorescenze della letteratura illuministica in quanto in essa vi è la ricerca di qualcosa di veramente sostanzioso e di metabolizzato. Per quanto controllata, la letteratura illuministica risulta dominata da un entusiasmo sotterraneo che di fatto la rende più effervescente che concettualmente significativa. Voltaire, ad esempio, è acutissimo in questa effervescenza, ma alla fine si accontenta (si fa per dire) del dito nella piaga (ai suoi tempi di carattere irrazionale come sistema dominante, per quanto solo indiretto). De Sanctis, invece, non conosce limitazioni di sorta, o per lo meno tenta seriamente di farne a meno: egli analizza spinto dalla sensibilità più che dalla ragione. Molto più tardi, Bergson, il filosofo francese, porrà sul trono l’intuizione e la riterrà infallibile in quanto segno di intelligenza pura, ovvero di intelligenza non contaminata da schemi.
De Sanctis è un antesignano di questa visione delle cose, nel senso che egli mette in pratica, ovvero mette sulla carta, fra i primi intellettuali moderni, le elaborazioni relative all’intuizionismo. Ne esce una trattazione nuova, fresca, della materia letteraria che si riversa, come un fiume che s’ingrossa all’improvviso, in un vero e proprio capolavoro speculativo, la “Storia della letteratura italiana”, un libro da tenere sempre a portata di mano per la chiarezza del contenuto. Siamo ad una lingua essenziale e ad una specie di rapimento passionale che non esce dal controllo, pur benevolo ed indulgente, da parte dell’autore. Seguendo il proprio estro, la propria genuina voglia di dire, evitando qualsivoglia trappola tecnica, De Sanctis ci trasmette la validità della ricerca assennata e circostanziata della espressione scritta, elevando la stessa ad arte per eccellenza. E’ una promozione naturale, conseguente alla formulazione di una teoria per cui la scrittura è la sintesi più completa, più esauriente del pensiero artistico.
A questo punto si evidenzia il fatto che l’arte in genere non è una sorta di stampella di cui l’uomo si dota per pigrizia razionale (come afferma Hegel), ma è proprio la sublimazione del pensiero e del sentimento dell’essere umano proteso verso l’ideale di sé e del mondo circostante.
De Sanctis si muove dentro questa logica e quindi le sue disamine vanno verso la costruzione dell’ideale per eccellenza, quello che intuitivamente (e poi razionalmente: ma la razionalità deve muoversi nella luce dell’intuizione) risulta più convincente. E’ come voler raggiungere la cima di un monte remoto, ma individuabile dal proprio perfetto immaginario, frutto di più immaginazioni ortodosse, a loro volta frutto di un’ambizione comprensibile e giustificabile. Altrimenti, quelle del Nostro, sarebbero opinioni come tante altre, opinioni più di pancia che di testa: non dovute ad intuizione bensì ad istinto, infine temperato da carezze accademiche. Meravigliosamente non c’è nella trattazione di De Sanctis la pedanteria dell’analisi tecnica. Questo grande intellettuale, un autentico fiore all’occhiello della cultura italiana, dà per scontato che la forma sia prodotto del contenuto: se la forma è contorta, il contenuto sarà contorto. La semplicità, che è cosa molto difficile da raggiungere, non ha fronzoli esteriori di sorta. La sua bellezza è naturale e spontanea. Il grande scrittore non ha bisogno di aiuti meccanici. Coerentemente De Sanctis sottopone se stesso ad una scrittura semplice, colloquiale che subito gli viene bene. Leggendolo, si capisce che egli è soddisfatto del suo impegno, un impegno che ad ogni pagina è infatti svolto con piacevolezza: piacevolezza, costruttiva, che dovrebbe accompagnare ogni autore perché la lettura dei libri possa divenire più gradevole, più stimolante e più utile all’edificazione culturale.
Francesco De Sanctis va assolutamente riscoperto. Molte le edizioni, a partire dalla prima, benedetta, del 1870-1871 per i tipi di Morano di Napoli. Altre, e parecchie, le opere del Nostro, ma la “Storia della letteratura italiana” il suo capolavoro. Può essere ammirata anche come opera letteraria in sé. L’ammirazione diviene poi più grande considerando l’impegno critico. Ecco un autentico “livre de chevet”.