Gli affronti ad Antonin Artaud

Nelle “Lettere da Rodez”, Antonin Artaud (1896-1948) esprime tutta la sua rabbia contro la religione, usata malissimo, secondo lui, da una Chiesa impicciona ed ottusa. Ecco cosa scrive ad Henri Parisot, uno dei suoi editori, il 7 settembre 1945:

… le ho scritto due lettere almeno tre settimane fa per dirle di pubblicare il “Viaggio al paese dei Tarahumara”, ma aggiungendo una lettera da mettere al posto del supplemento al Viaggio, dove ho avuto l’imbecillità di dire di essermi convertito a Gesù Cristo, mentre cristo è quel che ho sempre maggiormente abominato, e questa conversione è stata solo il risultato di uno spaventoso affatturamento che aveva fatto dimenticare a me stesso la mia natura e qui a Rodez mi ha fatto ingoiare, con il pretesto della comunione, un numero spaventoso d’ostie destinate a tenermi per il maggior tempo possibile, e se possibile eternamente, in un essere che non è il mio. …

Antonin Artaud, padre del teatro moderno (si pensi almeno al Living Theatre e al teatro di Carmelo Bene) è stato uno dei più interessanti intellettuali del secolo scorso. Da Rodez, a sud della Francia, messo a forza in un manicomio per sospetta schizofrenia, lo scrittore marsigliese confessa tutta la propria delusione per una società bloccata su schemi poco razionali e poco rispettosi dell’essere umano. Artaud non va certo libero per la piccola città, ma è costretto a stare in un manicomio alla mercé di un brav’uomo di scarsa capacità scientifica (come era ai tempi in generale): il dottor Gaston Ferdière lo sottopone alla cura dell’elettrochoc in misura considerevole e, ritenendosi un pioniere della psicanalisi, lo incita a praticare l’arte che più aggrada al presunto malato. Ovviamente per Artaud è la scrittura. Ma lo scrittore non ha più la lucidità di prima. Egli aveva esordito con poesie disperate e confuse. Jacques Rivière, responsabile della Nouvelle Revue Franćaise, lo prese in simpatia e qualcosa finì col pubblicargli (la loro corrispondenza, che è uno spaccato intellettuale di rara suggestione).  

 

A 4 anni il nostro personaggio soffrì di meningite: ad essa si fa risalirla sua instabilità mentale. Il libro “Al paese dei Tarahumara” a cura di H.J. Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi editore, è formato da diversi scritti di Artaud, la cui lettura dà bene l’idea di una personalità tormentata, nemica di ogni frase fatta e agguerrito oppositore del semplicismo, che egli vedeva nel comportamento generale del tempo (forse oggi è addirittura peggio). La sofferenza dello scrittore marsigliese è soprattutto di carattere esistenziale: è ovvio che con simili turbamenti dell’animo, Artaud non potesse accettare la consolazione penosa imposta dalla Chiesa.

 

Per la verità, il suo atteggiamento nei confronti di essa fu variegato nel tempo: ora fedele, ora infedele. Ora propenso all’ubbidienza, ora del tutto opposto ad essa. Vedeva nei riti l’assenza delle sostanza spirituale e quindi predicava l’inaffidabilità del dettato religioso istituzionalizzato. Questa inaffidabilità religiosa non gli era di certo sfuggita neppure nel complesso cerimoniale del popolo dei Tarahumara stanziato a nord del Messico (ancora è là, esso sarebbe composto da circa 70.000 individui), presso i quali soggiornò per qualche tempo, imparando l’uso del “peyotl”, un allucinogeno con poteri liberatori, meglio del laudano che da anni Artaud consumava largamente su invito del medico curante (sic!). Lo scrittore descrive con ammirazione le abitudini sacre di questo popolo, ne sposa in parte l’esoterismo (che è in qualche modo costruttivo), ma non dimostra sicuramente entusiasmo per le attribuzioni risolutorie date irrazionalmente alla cerimonia. Il fascino della semplicità dell’apparato scenico e una certa profondità insita nella fenomenologia del rito, diretto dall’esuberanza derivata dal’uso dell’oppiaceo, unitamente alla naturalezza del tutto, danno ad Artaud la visione di un mondo più puro.

 

Così come assistendo ad una danza di Bali, nel 1931 durante una esposizione coloniale, lo scrittore troverà lo spunto per rivoluzionare il teatro, cercando di dare più consistenza alla rappresentazione delle scene attraverso recitazioni che vedono coinvolto l’intero corpo. Ogni parte di esso deve avere importanza, ogni parte di esso esprime qualcosa. La scena diventa una serie di quadri fissi che cambiano più o meno rapidamente, rappresentando, ciascun quadro, uno stato d’animo specifico e significativo. La fissità serve per far cogliere il senso della rappresentazione.

 

Né manca l’invito al pubblico all’interazione. Tutto questo si distacca nettamente dalla consuetudine espressiva, proponendo, ed anzi imponendo, una maggiore partecipazione alle vicende e alla loro invenzione. Il distacco dal mondo convenzionale è totale ed è sollecitato da un volontà prometeica determinata dalla ragione: è ormai una ragione che sa fare a meno dei confini convenzionali testimoniati da un sapere codificato e da una spiritualità cristallizzata in formule esangui. Antonin Artaud è fra i disperati del ‘900 che hanno perso riferimenti assoluti e che ne cercano frettolosamente di nuovi. Lo fanno da soli, con poca storia in aiuto alle spalle, con tanto senso di inadeguatezza, ma anche con immenso orgoglio, un orgoglio giustificato dal valore che essi hanno scoperto nella personalità umana. Il sistema non capì Artaud, lo emarginò e lo trattò con brutalità. Egli sentì d’aver toccato il fondo con l’internamento nel manicomio di Rodez.

 

Ma il peggio doveva ancora arrivare. L’amico Gide gli fece trovare un posto nella clinica psichiatrica di Ivry sur Seine: dunque Artuad era proprio pazzo, un pazzo pericoloso? Non era un’anima tormentata da prendere in considerazione? Tanta intelligenza intorno a lui si faceva prigioniera di altro? Poco dopo, un tumore al colon mise fine alle  tribolazioni del presunto pazzo. Antonin Artaud è tuttora considerato un irregolare, al pari di Van Gogh (di cui il Nostro scrisse, difendendolo), non un innovatore. Non tanto lo fu, va detto, da un punto di vista letterario, lo fu da un punto di vista umano. Dimostrò, pur con qualche confusione, che l’uomo può riflettere anche sull’impensabile, sul cosiddetto ineffabile. La sua straordinaria sensibilità fu ferita da gente da poco che, laicamente e religiosamente, non andò mai oltre il protocollo (scarsissime le eccezioni). Grave fu il comportamento della Chiesa che cercò di imbottirlo di sacralità a buon mercato, trattandolo come un demente bisognoso di compassione. Artaud era in potenza un rivoluzionario nel nome della dignità umana, che vedeva calpestata).

 

Dario Lodi

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