Le ossessioni di Amelia Rosselli

La costante poetica di Amelia Rosselli (1930-1996) è rappresentata da un problema esistenziale profondo, ingovernabile, irrisolvibile. La poetessa ripete all’infinito, con minime variazioni, un tormento interiore che cerca di trasmettere all’esterno per averne un minimo di considerazione. La reiterazione della sofferenza per ciò che la vita non offre – una vera consolazione, uno scopo importante – è una richiesta di aiuto più limata che modulata.  

Questo aiuto, la poetessa lo chiede anche a se stessa, sperando non sia invano. La Rosselli porta con sé una scia di disperazione nata all’indomani dell’uccisione del padre Carlo e dello zio Nello nel 1937, in Francia, non lontano da Parigi, per ordine di Ciano e Mussolini. I due erano importanti esponenti socialisti. Il padre Carlo aveva sposato Marion Cave, inglese, a sua volta attivista laburista. Dopo l’ uccisione del padre, Amelia emigrò in Svizzera con la famiglia, quindi negli Stati Uniti; nel 1946 tornò in Italia e cominciò ad occuparsi di traduzioni oltre che ad interessarsi di musicologia. Fra le sue numerose opere poetiche e saggistiche, vanno sicuramente segnalati questi titoli: “Serie ospedaliera”, “Variazioni belliche”, il lungo poema “Impromptu” e i saggi di “Una scrittura plurale. Saggi e interventi critici”. L’esperienza della morte del padre e dello zio, assassinati barbaramente, fornì di certo suggestioni di fondo alla poesia della Rosselli e in particolare diede ad essa una struttura solenne, rafforzata da un certo comporre accademico.  L’intervento accademico nella composizione di un’opera nuoce, in genere, alla volontà di trasmettere uno stato d’animo sincero. Gli è che il ricorso a codici espressivi stantii, a parole rese opportune da un certo modo, teatrale, d’intendere il modo di esporre un sentimento doloroso, cozza con la sincerità essenziale del sentimento stesso. La Rosselli non è certamente esente da tutto questo. Essa ebbe rapporti con il Gruppo 63, un insieme di intellettuali dalle buone intenzioni, ma dai risultati discutibili rispetto ai propositi rivoluzionari. E in particolar modo ebbe a che fare con Andrea Zanzotto, Giovanni Raboni e Pier Paolo Pasolini (conobbe anche lo sfortunato Rocco Scotellaro, morto improvvisamente a soli 30 anni, pare per infarto, nel 1953; Scotellaro appartiene al mondo contadino partenopeo, che lui, in poesia e in prosa, rende universale: da leggere assolutamente “L’uva puttanella”, la sua solare autobiografia).

L’incontro con i tre citati non fu prolifico per la nostra poetessa, anzi  fu la causa dell’aumento della solennità e dell’enfasi nelle sue composizioni. Zanzotto, ermetico, era soprattutto uno sperimentatore, molto ben attrezzato nell’erudizione, quindi inevitabilmente un esteta della parola; Raboni  era un ottimo intellettuale, specializzato nella prosa critica, nonché traduttore, a tempo perso timido poeta intimista, con non grandi problemi esistenziali; Pasolini, modestie creative a parte, super valorizzate per motivi di costume, aveva una sensibilità (un orecchio si direbbe) poetica non comune. Gli si deve la scoperta di ottimi poeti dialettali. Probabilmente dei tre Pasolini le diede una certa carica vitale che invogliò la Rosselli ad arricchire i suoi versi, secondo una ricerca più viva dell’espressione.

Ma questa ricerca, non si rivelò per la nostra poetessa, un rimedio risolutivo. Alla lunga fu piuttosto uno scandaglio produttivo solo per la scoperta di un male veramente insanabile. Il confronto fra la forza del poetare – un tentativo di approdo verso qualsiasi salvezza – e la sensibilità amara sollecitata dalle parole adoperate, fu nettamente a favore della seconda. L’atteggiamento che la Rosselli aveva negli ultimi tempi, di sacerdotessa sacra, dedita alla trasmissione di una gnosi esoterica, nascondeva accumuli di dolore personale, intimo, che non sapeva come gestire. Quando avvenne la crasi fra parola preziosa e significato autentico della stessa nel contesto esistenziale, per la Rosselli fu la fine. La nostra amica si ritrovò completamente sola, a tu per tu con una realtà dura, mai vissuta tanto intensamente e per forza.

Essa negò sempre di essere ammalata fisicamente (aveva, fra i molti acciacchi, il morbo di Parkinson) e rifiutò cure. Ma il peggio arrivò quando decise di farla finita. Torniamo ora per un attimo alla sua poetica. Si discute continuamente sul valore eccelso o meno della sua poesia da un punto di vista concettuale. Per chi scrive, la Rosselli fu soprattutto un essere umano notevole, sotto molti aspetti esemplare. La sua poesia è faticata, ripiegata su se stessa, orgogliosa e disperata. Sta in un labirinto, da cui non vuole uscire. Ci sta con stupore, ma ci sta bene e ce lo comunica con passione discreta, trattenuta, grave, enigmatica. Una poesia viva in sé, chiusa in sé, con lampi verso il cielo quasi involontari. E’ una poesia da leggere e rileggere per cercare di comprendere una autentica sofferenza. La sua, la nostra nell’essere umani.
 

Dario Lodi

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