« A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna. »
Un paio di anni prima di suicidarsi, Emilio Salgari – il padre di Sandokan – scrisse ai suoi editori il messaggio sopra riportato e, a ridosso del gesto fatale (una rasoiata al collo ed una alla pancia: era il 25 aprile 1911, il luogo una collinetta sopra la sua abitazione torinese), lasciò ai quattro figli, un biglietto nel quale chiedeva scusa per il proprio fallimento di capo famiglia: “In cassa non restano che 150 lire …”.
Gli editori si erano approfittati della sua ingenuità per pagarlo poco. Salgari (che diventerà uno degli scrittori italiani più tradotti al mondo) era costretto a consegnare tre romanzi all’anno, costringendosi a scrivere tre pagine al giorno, corredate di particolari geografici che doveva correre a studiare presso la Biblioteca Civile Centrale di Torino, fortunatamente non lontano da casa sua. Scriveva nervosamente, fumando cento sigarette al giorno e consolandosi con generosi bicchieri di marsala. E’ probabile che non sia riuscito neanche a rileggere i suoi scritti.
La passione per i libri di avventura gli era venuta presto. A soli ventuno anni aveva licenziato il suo primo libro, “I selvaggi della Papuasia”, un racconto. Pochi mesi dopo egli mise mano a “Le tigri di Mompracem”, un lungo racconto pubblicato a puntate sul giornale veronese “La Nuova Arena”, con grande successo (e scarso guadagno per lo scrittore). A Verona, dove era nato, Salgari trovò, dopo le prime esperienze narrative, un posto di redattore al giornale “L’Arena”, ma l’amore per le avventure esotiche, che il pubblico dimostrò di apprezzare parecchio, lo portarono ad avere contatti con un piccolo editore, Speirani, che operava in Piemonte.
Salgari, con la moglie Ida Peruzzi, un’attrice di teatro, e con la figlia Fatima, andò ad abitare ad Ivrea, poi a Cuorgnè, infine nel 1898 definitivamente a Torino in Corso Casale. Per cercare di guadagnare maggiormente, egli prese contatti anche con altri editori, ricorrendo talvolta a pseudonimi (tanto contavano le storie, lui non era considerato), e li ottenne con Donath (nel 1896) e con Bemporad (nel 1906).
Nel 1897, su proposta della regina Margherita di Savoia, aveva ottenuto il titolo di Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia, onorificenza dalla quale credeva di cavare vantaggi pratici, ma Salgari fu sempre incapace di trattare con i suoi editori. La sua situazione anzi peggiorò a causa della malattia mentale della moglie. Ida dovette essere ricoverata in un sanatorio che il nostro povero scrittore faticava enormemente a pagare. Era il 1911. Questa vicenda influì pesantemente sul morale, già provato, di Salgari.
La decisione di farla finita fu irrevocabile e infine compiuta.
La stessa fine l’aveva fatta suo padre, ossessionato dalla paura di avere una malattia incurabile. Addirittura anche i suoi figli finirono male: Fatima morì di tubercolosi nel 1914, Romero si suicidò nel 1931, Nadir mancò in seguito alle ferite riportate in un incidente in moto; Omar si suicidò a sua volta nel 1963 buttandosi dal secondo piano dell’abitazione di un amico. Nel 1957 egli aveva rilasciato un’intervista televisiva nella quale parlò, con commozione, della fragilità del padre.
Salgari è autore di oltre duecento opere fra racconti e romanzi, suddivisi in cicli narrativi. I più noti sono: il ciclo dei Pirati della Malesia, dei Corsari delle Antille, dei Corsari delle Bermude, il ciclo del Far West. Ne seguono molti altri. Fra i suoi personaggi, davvero memorabili sono Sandokan, il Corsaro Nero e Yanez. Gli si devono anche due opere singolari, uno storico “Cartagine in fiamme” e l’altro “Le meraviglie del 2000” (in quest’ultimo, lo scrittore prevede il futuro del’umanità con notevole capacità predittiva).
Salgari è scrittore di notevoli qualità fantastiche. La sua prosa è fulminea, semplice, ma in qualche modo incisiva perché caratterizzata da un candore sincero, da un entusiasmo che fa la vita avventurosa una vera e propria liberazione dalla banalità borghese, dalle sue trame meschine e crudeli. Salgari dà risalto al suo desiderio – che reputa desiderio generale – di nobilitare l’esistenza dell’uomo. Le avventure che descrive sono più spirituali che materiali e questa spiritualità elementare contagia qualunque lettore.
Diversi anni fa, a metà degli anni Settanta, alla televisione italiana approdò una trasposizione di alcuni romanzi del Nostro, con Kabir Bedi nei panni di Sandokan: non fu una cosa meravigliosa. Della scrittura di Salgari fu sacrificata la polpa. I paesaggi avevano ben poco di esotico, erano convenzionali, erano parodie dell’esotismo. I personaggi risultavano delle marionette, erano privi di anima, di entusiasmo, di brivido dell’avventura. Il ritmo narrativo era lontanissimo da quello di Salgari, grande e simpatico sacerdote dell’emozione.