Torna l'arte povera. Ma prima c'era Caravaggio

Nel tempo degli sdoganamenti a gogò, quello dell’Arte Povera non è una folgorazione sulla via di Damasco, ché il movimento ha sempre goduto non solo dell’interesse, ma anche dell’investitura dei critici. Un padrino come Germano Celant, già dal 1967, raccoglieva tempestivamente tanto gli umori quanto la lucidità espressiva di quel pugno di artisti per i quali, come scrive lo stesso storico in occasione di una delle prime mostre del gruppo – Im Spazio: “Tema principale e contenuto dell’arte oggi non è più la costruzione dello spazio bensì l’attività dell’uomo, dell’artista”. Quanto all’attività degli uomini-artisti, credo che questa inedita rete inter-museale, tessuta ancora da Celant, ossia “Arte Povera 2011”, sia un’occasione filologica da non perdere, per guardare con occhi nuovi cose vecchie: un po’ il mestiere del critico d’arte.

In Italia, in simultanea, città come Torino, Milano, Bergamo, Bologna, Roma, Napoli e Bari, sostanzieranno una manifestazione affatto originale, che include oltre trecento installazioni ed opere in architetture interne e spazi urbani su una superficie totale di 15.000 metri quadrati, in una commisurazione anche fisica della scala internazionale raggiunta dal movimento. Sarà forse un capriccio, ma ho idea che possa essere salutare contrapporre a questa sorta di multicast geografico un fendente diacronico, un passo del gambero scomodo, che andando all’indietro nel tempo pesti i piedi di quanti si credono “sazi” di quanto negli ultimi cinquant’anni ci è stato propinato sull’arte povera. Lo sguardo nuovo, appunto; con riferimenti provocatoriamente vetusti, che quasi puzzano di naftalina.

Quasi. Perché questo tempo storico dell’arte sgocciola sempre, come il dripping di Pollock. Opere d’arte morte e sepolte, se ripescate in maniera inattesa, gettano una luce inusitata su quanto crediamo di sapere sulle tendenze più recenti.

Nel gennaio 1967, il greco naturalizzato italiano Jannis Kounellis (Pireo, 1936), organizza a Roma presso la Galleria L’Attico di Fabio Sargentini una mostra personale, in cui espone dodici cavalli vivi. Quando si leggano le dichiarazioni sparse dell’artista, per chi abbia una certa sensibilità visionaria il salto indietro per evocazione è quasi fisiologico. Kounellis ha spesso raccontato di essere stato ispirato da una frase di André Breton in Le surrealisme au service de la revolution, in cui il francese dichiarava che qualcosa potrebbe riuscire altrettanto impossibile quanto ai tartari portare i loro cavalli ad abbeverarsi alle fontane di Versailles. L’artista ne ha tratto spunto per un’azione ugualmente imprevista, quella di condurre i cavalli nello spazio di una cavalleria privata, con l’esplicito intento disturbante di produrre una tensione incontrollabile attraverso la vitalità della presenza fisica, che intimidisse lo spettatore ri-qualificando, perfino col lezzo, la struttura percettiva della galleria nella propria fisicità.

Ora, riprendendo quella massima di un altro greco naturalizzato, Giorgio De Chirico, vien da dire che un artista non deve essere solo originale, ma “originario”. E l’origo di un creatore non è solo quella della propria terra, con i suoi condizionamenti ineludibili, ma anche quella di una verginità impossibile, per cui si è sottoposti alla suggestione di tutto quanto ha preceduto la dimensione estetica nella contingenza della storia dell’arte. Ed allora, i cavalli cavalcano lungo una citazione ininterrotta, che va dalle modulazioni estenuate di Fidia nel Partenone, all’algida geometria di Paolo Uccello e di Piero della Francesco nel primo Rinascimento, specchiato – proprio come il Battistero fiorentino nelle tavolette di Brunelleschi – nella composta passione scientifica della prospettiva; ma, ancora, i vari monumenti equestri, dal Gattamelata a Padova di Donatello al Monumento Trivulzio di Leonardo da Vinci; o la non-battaglia dei lancieri di Breda di Velazquez, o le sfumature dal folle al nobile dei cavalli rispettivamente di Géricault a Delacroix, fino all’irruzione deformata e lancinante della Storia in Guernica di Picasso.

C’è un cavallo, però, che merita spazio in questo gioco di corto-circuiti, in questo time dripping. Un cavallo che invero ha già scalciato a sufficienza per ritagliarsi la propria nicchia oscura: visto che la prima versione del dipinto di cui faceva parte era stata scartata. Alludo a quello della Conversione di San Paolo (1600-1601) di Caravaggio (Michelangelo Merisi, Milano, 1582 - Porto Ercole, 1610), per la chiesa di Santa Maria del Popolo, in cui l’animale emerge dall’oscurità della tela del pittore lombardo e da quella della cappella ecclesiastica offrendosi al fedele nella ritrosia istintiva con cui solleva la zampa anteriore, per evitare di calpestare il (futuro) santo, appena vocatus ad deum. E, nondimeno, vocatus è lo spettatore: gli dei sono caduti, la bruma abbatte il diaframma spaziale della cappella fondendosi con essa nella rivelazione attimale – una folgorazione – dei balenii di luce sulle braccia tese di Paolo, sulla pezzatura d’ocra del cavallo, in parte confusa nella notte: tenebrosa, tanto è lontana l’intuizione di Dio; fuligginosa, come il sentiero che porta a Damasco. Un colmo di luce è sulla fronte dello scudiero, un crocevia di grinze che più di una volta il sudore deve aver solcato, il popolano lo può capire bene. Ecco, un quadro sacro occupato per due terzi da un cavallo e dal suo scudiero, mentre Paolo è a terra: la distanza del riguardante dall’evento religioso è passata dall’epifania al coinvolgemento materiale, il contatto con il turbamento di Paolo si è dovuto fare esperienza dolorosa dello spazio fisico rivelato, perché dalla schiena scaraventata lo shock passi ad un’anima dubbiosa. Non l’odore del cavallo, non ancora, come in Kounellis; ma nella Roma del ‘600, come per lo spettatore della galleria romana L’Attico, l’esserci del cavallo fu una visione tanto schiantante quanto inattesamente corporea. Quella che si definisce “rivoluzione caravaggesca” era una metamorfosi delle strutture percettive, la cui sintesi visiva si dà nella contiguità perennemente prossima al contatto delle mani adoranti dei due pellegrini della Madonna dei Palafrenieri (1604-1606), nella cappella Cavalletti della basilica di Sant’Agostino.

Si trattava di un avvicinamento decisivo al confine tra arte e vita, nel limbo – storicamente ancora inevitabile – della “visione”: senza Caravaggio, niente Kounellis; senza l’arte per i poveri, nessun’arte povera; senza il brivido del viandante, nessun solletico al naso del pellegrino di gallerie private. Ma, frattanto, una barriera era stata abbattuta: quella del mentalismo ad oltranza, dello spazio come costruzione geometrica. Quando Celant scrive che tema dell’arte povera non era più la costruzione dello spazio, torna a ricognire i campi di battaglia ancora fumanti di Paolo Uccello (Paolo di Dono, Firenze, 1387-1475), con la sua Battaglia di San Romano (1438?), spoglie disseminate tra Londra, Firenze e Parigi di una pugna artistica perduta: quella del dominio razionale dello spazio della rappresentazione, sogno infranto sin da quanto, dopo le crepe ottocentesche, nel secondo dopoguerra l’arte come scienza europea è entrata in crisi e si è affermata, irradiandosi specie da New York, l’”art as experience”. Quanto strepito sospeso nei cavalli di Paolo Uccello, in quel combattimento atemporale composto con geometria di lance, salme strategicamente cartesiane, perspectiva raggelata nella fiaba notturna di una danza di ritmo atroce!

Ma gli eroi sono morti, i pionieri sono stanchi. Resta un'umanità di scudieri. Il XX secolo ha il nome non scritto dei martiri della guerra. Non si vince, né si perde: ma si vive, quando si può. Lo spazio non si domina, né Dio ci accoglie nella dimensione umana della sua epifania. Se per Michelangelo Pistoletto Venere è tra gli stracci, per Kounellis gli uomini sono tra i cavalli: e chissà che i cavalli non sentano l’odore dell’uomo, visto che chi vive – è una questione organica – ha un odore. Scrive Pistoletto: “Per me l’arte e la vita sono tutte e due una questione di durata, non desidero far morire l’arte come non desidero far morire la vita. La più grande arte sarebbe quella di far vivere per sempre”. E la vita non è nell’incolore opacità della Venere, di bellezza implacabile come una lancia su di un campo di martiri. Il Classicismo come sentimento dell’organico è finito: c’è l’organico tout court, il vivere organicamente, multicolori negli odori e nelle sfumature dell’esistenza come un ammasso di stracci, nella loro verità dell’esser-stati-vissuti. Questa è la ricchezza dell’arte povera: la ricchezza – dolorosa – di tutte le rivoluzioni.

 

Antonio Maiorino

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