Speciale su Picasso a Milano. Anzi no

La Francia non è mai stata così vicina. Dopo l'esodo di opere dal Museo d'Orsay a Torino che ha consentito l'allestimento della mostra su Edgar Degas, a beneficiare di un ampio prestito d'oltralpe è questa volta il Palazzo Reale di Milano, dove dal 20 settembre, e fino al 6 gennaio 2013, sono esposte 250 opere di Pablo Picasso. Periodo fortunato, per il Nord Italia, specie se si considera il particolare - rigorosamente omesso dal sito web della mostra - che una concessione così ampia da parte del Museo Picasso di Parigi trae scaturigine dalla circostanza che vede il museo francese chiuso per lavori di ristrutturazione fino a giugno 2013. Sul fatto, poi, che le grandi mostre italiane non superino la linea del Tevere, ci sarebbe da approfondire. Ma sarebbe un discorso rognoso, che monterebbe fino a Carlo Cattaneo e Gaetano Salvemini.

Ma tant'è, abbiamo Picasso in Italia, e godiamocelo. Quindi: parliamo di Picasso. Anzi no. Perchè è forse l'artista - dopo Warhol? - su cui si è detto di più. E come spesso accade per i miti, lo si è smesso di conoscere. Per le masse di amatori, infatti, l'opera dello spagnolo non travalica il folklore di qualche tavolo ribaltato o di qualche spigoloso Arlecchino. Per un nome che si spende come carta moneta, la paura è quella di un'inflazione di informazioni, con l'effetto boomerang di un approfondimento poco efficace.

"Tutte le strade portano a Picasso", scriveva Gertrude Stein. Il problema è avere la bussola. Ma c'è Palazzo Reale a Milano, evviva Picasso. Purchè non si avverino, poi, certe premesse tremebonde, che pare ricavare dall'invito presente sul sito della mostra, allorchè si legge: "Una combinazione di genialità e linguaggi artistici in continua evoluzione che arricchirà la città di ineguagliabile bellezza". Ingenuità della comunicazione: Picasso non fu affatto un artista votato alla ricerca del bello. Baciare una delle Demoiselles d'Avignon per credere. L'invito pare più quello di un buffet visivo. La paura che l'invasione dalla Francia - o dalla Spagna - con furore sia il pretesto per la solita ingordigia arruffona, è ineludibile. L'"ineguagliabile bellezza" dei quadri di Picasso fa pensare allo scintillio delle luci d'artista di Salerno: un addobbo para-museale, nulla più.

Per venire al punto zero di un'ideale didattica picassiana, verrebbe da chiedersi in quanti, tra gli estimatori, abbiano chiaro il senso della rimasticazione dei codici figurativi dell'autore. Ma siamo certi che la sezione didattica di Palazzo Reale farà un buon lavoro su questo. Intanto, a noi che prendiamo atto della diffusa ignoranza sull'artista meno ignorato del Novecento, vien voglia di fare un excursus su quelle strade che portano a Picasso. Un'idea stimolante potrebbe essere quella di considerare la fase "cubista" dei pittori che presero subito a gravitare attorno allo spagnolo ed a Georges Braque: un decentramento provocatorio, che da un lato riesca proficuo per ricognire la produzione certo meno nota rispetto a quella dei pionieri del Cubismo, e che dall'altro, come ogni strada, porti di nuovo a Picasso. Lo spunto viene da un articolo comparso sul quotidiano popolare Le Petit Parisien il 23 aprile 1911. Alla domanda "che cos'è un cubista", il quotidiano si dà marzullianamente la seguente risposta: "è un pittore della scuola di Braque-Picasso".

Eppure sin da subito gli scaltri mercanti dei due - Henry Kanhweiler e Wilhelm Uhde - avevano già disposto sia a Picasso che a Braque un veto squisitamente imprenditoriale: non mischiarsi alla marmaglia dei cubisti, alias diserzione sistematica delle esposizioni così etichettate. E non furono, infatti, nè Picasso nè Braque a scrivere di cubismo: lo fecero nel 1912 J. Metzinger ed A. Gleizes (Du Cubisme), l'anno dopo Guillame Apollinaire (I pittori cubisti). Ma come la strada maestra di Picasso e Braque fosse difficilmente riducibile a scorciatoie o vicoli angusti di seguaci ed imitatori, meglio, di "scuole", emerge proprio nel contrasto tra l'affermazione di Apollinaire ("Il cubismo si differenzia dall'antica pittura perchè non è un'arte di imitazione, ma di pensiero") e la successiva sconfessione di Picasso ("Il cubismo, il cubismo reale, era un affare orribilmente materialista"). Ma è il gioco delle tre carte. Perchè è lo stesso Picasso ad osservare nel 1923: "fin dalle origini, dai primitivi, le cui opere sono evidentemente differenti dalla natura, sino ad artisti come David, Ingres, e persino Bouguerau, che credevano di dipingere la natura come è, l'arte è sempre stata arte e non natura", lasciando intendere l'operazione mentale sottesa alla riproduzione del reale.

Se di gioco delle tre carte si tratta, un possibile asso nella manica potrebbe essere, vien da dire, il Fante di Quadri. Questo è il nome del gruppo russo d'avanguardia fondato da M. Larionov nel 1909, che propose la propria declinazione del linguaggio figurativo con forti suggestioni cubiste, al punto da invitare alla prima mostra lo stesso A. Gleizes, oltre ad André Lhote ed Henri Le Fauconnier. Anche K. Malevic partecipò all'esposizione del gruppo nel 1910. Si tratta di una circostanza significativa. Considerando gli esiti delle successive ricerche di quest'ultimo, si può ben intendere come il cubismo fosse per l'artista il totem di una fase ben circoscritta. E così, similmente, Mondrian conosce il proprio rovello cubista all'inzio degli anni '10; Duchamp, addirittura, partecipa ad una fronda, La Section d'Or. Ed accanto a questi, molti, distinguendosi dai meri comprimari, sulla strada tracciata da Picasso e Braque svolgono percorsi di assoluto interesse: dall'occultista F. Kupka al quasi astrattista R. Delaunay, dal matematico J. Gris al "tubista" F. Léger. Tutte le strade portano a Picasso. In contemporanea con la mostra di Milano, approfondiremo alcune esperienze di quanti furono, all'epoca, scioccati dalle sperimentazioni dello spagnolo: con l'auspicio che in contemporanea la mostra faccia il suo dovere... "mostrare". Il vero volto di Picasso, scioccante come una maschera negra da esorcizzare.

Sito ufficiale della mostra

(...continua...)

 

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