a cura di Ivan Quaroni
E’ un universo casuale al quale noi apportiamo un significato.
(Sheldon Kopp)
Ivan Quaroni: Stop Making Sense, titolo che riprende un disco dei Talking Heads, è il nome che hai dato a una nuova serie di lavori. Lo slittamento dalla dimensione pittorica a quella del collage (anche digitale) non è formalmente distante dalla tua ricerca precedente. Perché, a un certo punto, hai sentito l’esigenza di operare in un campo diverso dalla pittura?
Paolo De Biasi: Questa selezione di opere è nata riflettendo su una frase di Sheldon Kopp, autore di Se incontri il Budda per strada uccidilo[1]. L’idea che il nostro sia un “universo casuale al quale noi apportiamo un significato”, mi ha suggerito un parallelo con il mio metodo di lavoro. In Stop Making Sense ho voluto – diciamo così – portare questo metodo alle estreme conseguenze, rinunciando all’aspetto narrativo della mia pittura. Ho perso qualcosa, ma ho guadagnato una maggiore libertà formale ed espressiva. Si tratta di un’idea che accarezzavo da tempo e di cui la serie degli Ephemeral paintings costituisce una sorta di precedente. In quei dipinti m’interessava rendere evidente il processo compositivo e porre l’accento sull’idea primitiva, la suggestione e l’intuizione che genera l’opera. Sono convinto che per ogni artista (ma vale per tutte le attività umane), l’unica vera spinta sia la ricerca di un senso, che è poi il senso del nostro stare al mondo. Mi sono chiesto come sia possibile esprimere questa intuizione attraverso un’opera.
IQ: E che cosa ti sei risposto?
PDB: Che non c’è una soluzione. Sheldon Kopp – una lettura da te consigliata tempo fa – non può che avere ragione: non rimane altro che insistere, continuare la ricerca nella consapevolezza che il senso non è l’obiettivo finale, ma lo è, piuttosto, il percorso stesso. Ecco, queste opere mostrano un percorso, che è surrealista per definizione.
IQ: In uno dei nostri vitali scambi d’informazioni via mail, mi avevi postato il Manifesto Incompleto per la Crescita di Bruce Mau[2] – poi diventato uno degli strumenti didattici dei miei seminari – in cui si afferma che “il processo è più importante del risultato”. Quindi, si tratta di un’idea che, in qualche modo, era già presente nel tuo DNA.
PDB: E’ vero. Il concetto stesso presuppone secondo me che tu sia al tempo stesso attore e spettatore, colui che guida il flusso ma anche colui che ne subisce la spinta. La pittura -pure nelle sue forme meno convenzionali di collage o di digital painting- non riguarda tanto la produzione di opere, quanto piuttosto un modo di osservare il mondo. Non è il risultato di uno sguardo, ma è a sua volta sguardo. Nell’ultimo numero della rivista monografica Solo, Daniel Pitìn scrive a proposito della pittura: “Mi ritrovo spesso come uno spettatore di un film, che è molto felice di essere stato in grado di entrare in possesso del biglietto per questo spettacolo“[3]. La sua metafora è perfetta. Per completare il ragionamento ricordo anche un tuo articolo di qualche tempo fa sul metodo abduttivo, in cui ritrovavo molte similitudini con il mio modus operandi. In fondo la pratica del collage è la rappresentazione più evidente di quel tipo di pensiero.
IQ: Qualche anno fa intervistai Isao Hosoe per una testata della Condé Nast. Durante il nostro colloquio, il designer giapponese menzionò il filosofo Charles Sanders Peirce in merito ad una cosa chiamata “abduzione”. Non ne sapevo assolutamente nulla, ma ne rimasi affascinato. Secondo Peirce, l’uomo ha tre possibilità d’inferenza, tre modi di ragionare: deduzione, induzione, abduzione. Mentre la deduzione è un’argomentazione scaturita automaticamente dalle premesse (dall’aspetto del cielo possiamo dedurre che pioverà), l’induzione è un’elaborazione logica che ricava i principi generali dall’osservazione di uno o più casi (quando piove, il cielo ha un certo aspetto). Nell’abduzione, invece, dato un fatto sorprendente, cioè diverso dalle attese, si formula un’ipotesi tale che, se fosse vera, trasformerebbe il fatto sorprendente in un fatto normale. In pratica, l’abduzione cerca una teoria proprio per spiegare i fatti sorprendenti. Si tratta di un procedimento in cui l’intuizione gioca un ruolo fondamentale, come nel caso degli Ephemeral Painting e dei collage digitali di Stop Making Sense. Secondo te, è possibile elaborare una teoria dell’intuizione o dell’improvvisazione?
PDB: Le teorie mi risultano indigeste, ma, allo stesso tempo, non voglio cadere nel tranello filosofico secondo cui anche l’assenza di regole è una regola; quindi ti rispondo semplicemente che se dev’essere improvvisazione che lo sia fino in fondo, senza premeditazione e senza intenzione. Per l’intuizione è leggermente diverso, perché è quel momento in cui abbandoni la logica binaria per abbracciare il paradosso, è quel guizzo che rende chiaro ciò che non lo è, io lo vedo come un calcolo che il tuo cervello elabora mettendo in campo conoscenze, emozioni, cultura, sentimenti e tutto il resto e ti fornisce un risultato a cui razionalmente non saresti mai arrivato.
IQ: Che cosa distingue il metodo di realizzazione di Stop Making Sense dai processi di scrittura automatica e d’improvvisazione degli artisti surrealisti? Non credi che il processo digitale richieda un minimo di postproduzione e che, quindi, implichi, un lavoro “cartesiano”, come direbbe Franco Bolelli, di riordino e riorganizzazione?
PDB: Come dicevo, il mio è un percorso surrealista. Non ho la presunzione di avere inventato nulla di nuovo. Noto, però, che mentre in passato le correnti artistiche nascevano spesso in antitesi ad altre correnti, oggi le cose sono più diluite, perciò l’appartenenza a una corrente e alla sua metodica non è mai così totale. Io parto da un archivio d’immagini infinito e quindi devo selezionare diversamente. La post-produzione non è in fondo diversa dalla preparazione in pittura se vedi i vari passaggi come tappe di un processo che si serve via via di strumenti diversi. Bolelli quindi c’entra, nel lavoro inevitabile di selezione: davanti a infinite possibilità combinatorie, dobbiamo attivare una maggiore capacità e responsabilità nella scelta.
IQ: Il tuo distinguo sulle correnti artistiche del passato si riferisce al fatto che Italian Newbrow, che più volte ho definito come uno scenario fluido e se vogliamo anche informe, sembra piuttosto un contenitore di biodiversità artistiche, accomunate da un’attitudine aperta e anti-elitaria? Condividi la necessità di questo genere di approccio, diciamo più espansivo e comunicativo?
PDB: “Biodiversità artistiche” mi sembra una definizione azzeccata. Ma tu sei il critico, quello che cerca di definire uno Zeitgeist, io sono l’artista e nella pratica non puoi pensare allo Zeitgeist se speri in qualche risultato. Al di là di questo distinguo, che vuole semplicemente evidenziare i diversi punti di osservazione dello scenario, direi che sì l’arte dovrebbe essere inclusiva anziché esclusiva. Condivido questo tipo di approccio, anche a te allora non interessa il risultato quanto piuttosto continuare la ricerca spostando di volta in volta il confine? Lo stato Beta permenente riguarda anche gli esseri umani non solo i software ed è l’unico modo per evolvere.
IQ: Un mio personale cruccio, se vogliamo un nodo non del tutto risolto nell’analisi delle espressioni artistiche contemporanee, consiste nel fatto che la necessità di rivolgersi a un pubblico più vasto rispetto a quello tradizionale dell’arte, può indurre alcuni artisti a rinunciare alla complessità. Mi spiego meglio. Secondo te, un lavoro complesso può essere apprezzato e compreso anche dal pubblico generalista?
PDB: E’ una questione ricorrente, che parte da una premessa sbagliata secondo cui la complessità è sinonimo di qualità. Capisco la tua domanda, ma direi che, oltre a quello che tu chiami pubblico generalista, ce n’è un secondo, altrettanto pernicioso, in cerca di promozione culturale. Il rischio per molti artisti è di individuare il pubblico prima ancora di aver maturato un percorso e, quindi, di indossare di conseguenza il cilicio del perbenismo intellettuale oppure l’abito mondano del “nazional popolare”. Comprendo il tuo cruccio da critico, ma da artista io posso non pormi questo tipo di problema.
IQ: Tornando a Stop Making Sense, una volta espunto l’elemento narrativo a vantaggio di quello formale, credi sia ancora possibile definire “pop” questa serie di opere?
PDB: Non dovrei essere io a definire il mio lavoro, ma se rispondessi “no”, ciò significherebbe che la “qualità pop” delle mie opere dipende dall’elemento narrativo. Al contrario, rispondere “sì” vorrebbe dire che l’aspetto formale è il vero elemento qualificativo. Io ho solo voluto verificare un nuovo percorso che non presuppone un taglio con il passato, ma che anzi vuole lasciare spazio alle diverse forze in gioco. Tempo fa pensavo alla frase di Mies van der Rohe “less is more”, che presuppone una volontà di semplificare e togliere anziché aggiungere. Bene, lo stesso Mies van der Rohe disse anche “God is in the detail”, che per me significa che se vuoi ottenere un effetto di pulizia formale, devi dedicare molta attenzione al singolo dettaglio. A me questa cosa sa di contraddizione. Come dire che per “levare”, devo in realtà “aggiungere”. Quello che sto cercando di fare è semplicemente sfruttare le contraddizioni insite nel mio lavoro per trovare nuovi stimoli di riflessione. Una specie di ecologia del lavoro. “Mess is more”.
IQ: Questo tuo mescolare simultaneamente elementi contraddittori è una caratteristica che fa pensare agli artisti della Leipzig Schule. Molti pittori di quell’area e, in generale, dell’est Europa sono, per così dire, “simultaneisti” e prediligono un immaginario iconografico pieno di sovrapposizioni e ambiguità semantiche. Avverti quest’affinità elettiva tra te e loro? E come te la spieghi? In fondo, il tuo background storico e culturale è molto diverso da quello degli artisti dell’Est.
PDB: In realtà non me lo spiego. Credo semplicemente che ognuno ha il diritto di scegliere i propri eroi. Neo Rauch ha detto che “Balthus, Vermeer, TinTin, Donald Judd, Donald Duck, Agitprop e l’immondizia della pubblicità dozzinale possono entrare nel paesaggio e generare un conglomerato di sorprendente plausibilità”[4]. Rispetto agli artisti dell’Est magari mi manca l’Agitprop, ma posso trovare un sostituto.
[1] Sheldon Kopp, Se incontri il Budda per strada uccidilo, Astrolabio editore, Roma, 1975.
[2] Bruce Mau, Incomplete Manifesto for Growth, http://www.brucemaudesign.com.
[3] Solo n.2, AmC Collezione Coppola, Treviso, 2012.
[4] Intervista a Neo Rauch, Flash Art n. 252, Giancarlo Politi Editore, 2005, Milano