Poche domande, semplici e dirette, per conoscere un artista.
Questa settimana è la volta di Patrick Tabarelli.
Da dove vieni?
Sono nato nel 1979 vicino a Verona dove ho passato buona parte della mia gioventù. Le mie esperienze professionali e formative hanno sempre alternato ambiti scientifici a quelli artistici. Ho lavorato per un paio d’anni presso Science Photo Library a Londra. Rientrato in Italia mi sono diplomato in Pittura a Milano, con una tesi sull’ubiquità intesa come paradigma in grado di definire l’immagine. Precedentemente mi ero laureato in Design della comunicazione.
Cosa fai?
Cerco di porre una distanza tra le “cose” per vedere fino a che punto può sussistere tra loro una relazione. È un modo per metterle alla prova e vedere se questo innesca dei cambiamenti. Mi interessa soprattutto il carattere volatile e liquido delle immagini.
Buona parte della mia ricerca prende vita attraverso il medium pittorico, che ritengo abbia ancora una qualità di informazioni più interessante rispetto ad altri mezzi. Il modo in cui uno spettatore interagisce ed ispeziona una superficie pittorica per me rappresenta un valore. Per questo cerco modalità produttive che lo incuriosiscano e lo spingano a interrogarsi sulla loro natura, la loro origine, la loro storia. I moiré della serie {F} (2016) per esempio esistono solo in funzione della distanza tra le linee che li compongono e della distanza dalla quale li si osserva.
Dove stai andando?
Da qualche anno ho iniziato a decostruire i miei processi lavorativi e a rimetterli insieme attraverso algoritmi con lo scopo di ampliare la loro indipendenza generativa. Al contempo utilizzo drawing machines artigianali per impiegare il loro segno. In {CA} (2015) ho utilizzato degli automi cellulari per costruire una percezione tattile e visiva di un millimetro cubo di sangue. All’inizio pensavo in questo modo di rovesciare la prospettiva con cui guardavo al mio lavoro, ma ho capito solo successivamente come questi diversi processi abbiano esteso la narrazione al di là del supporto. Cohen era solito usare l’espressione “collaboration with my other self”.
In 500 Unreachable Islands (2015, in progress) ho cercato di dilatare lo spazio creativo tra me e l’opera. Partendo da cinquecento immagini fotografiche scattate da persone differenti su altrettante isole in giro per il mondo, ho scritto un software che sulla loro base “dipingesse” altrettanti orizzonti.
Cosa vuoi?
La scoperta della grotta Chauvet ci ha rivelato che produciamo immagini da almeno 32000 anni, ma la domanda per me è rimasta sempre la stessa: cosa rende alcune immagini così evocative?
Copertine settimanali di Lobodilattice a cura di Alex Urso