l’Arte e il Cinema //// puntata 4 /// Stanley Kubrick

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Stanley Kubrick. Nelle puntate precedenti i soggetti erano gli artisti e le loro opere. Una chiave per raccontare il rapporto fra il cinema e la pittura. Chiave semplice e diretta, anche facile e felice, se disponi delle opere di Van Gogh, Goya e Michelangelo. Il racconto per immagini (un modo per dire “il film” naturalmente) procede in velocità, intensità ed estetica superiore. L’abbiamo scritto, non occorrono sceneggiatori e neppure scenografi.

Poi c’è un altro rapporto, la citazione e l’ispirazione. Il regista compone il proprio quadro riferendosi a un maestro della pittura, o dell’arte. Allora il cinema mette in campo le proprie facoltà, la luminosità, il movimento, i modelli all’interno del contesto pittorico, la musica che affianca o sostiene la sequenza-estetica. Allora di un’altra formula trattasi, rispetto alla primaria di mera “registrazione” dell’opera, e di un’altra chimica. Occorre naturalmente che l’autore di cinema sappia affrontare quell’arte e quell’estetica e non ne venga condizionato o superato, o seppellito, ma sappia usare il “mezzo” in modo funzionale al progetto cinematografico, che dia la sensazione di saper governare un motore e una potenza sempre prevalenti rispetto alla disciplina di cui è padrone. L’arte – la grande, la vera – arriva prima, è sempre arrivata prima, si è consolidata, ha creato dei precedenti inamovibili, il cinema può solo rappresentarla girandole intorno, accettando il padrone e accettando di servire quel padrone. 

Colto Stanley Kubrick, maestro massimo, talento colto, capillare, maniacale, non poteva che avere un grande rapporto con l’arte. Era appassionato, conoscitore e collezionista. È stato anche fotografo, ai suoi inizi. E naturalmente sapeva interpretare e adattare. Plasmava l’arte secondo le necessità estetiche e anche drammaturgiche del racconto e della rappresentazione.  E si avvicinava a quella disciplina-guida con rispetto, con onestà e con modestia. Nei suoi anni attivi, dai Settanta alla fine dei Novanta, Kubrick non ha mai perso di vista quell’arte contemporanea. Dalla Minimal art americana, dalla quale ha assunto un elemento chiave, il monolite, il rettangolo come forma modulare che si ripete in spazi aperti e chiusi. Il monolite apre 2001 Odissea nello spazio. Siamo nel primordio, le scimmie interagiscono fra loro com’è naturale, si trovano di fronte il monolite, un elemento estraneo, univoco, incomprensibile, invincibile, umano. Non lo capiscono e comincia la pazzia e la violenza. I nomi che si riferiscono a quel codice sono Robert Morris con le sue installazioni, Carl Andre con alcune delle sue pavimentazioni, e i blocchi puntati al cielo di Donald Judd. In quel film ci sono anche segnali di Optical art, un ramo che si sviluppa dalla Pop art di Warhol, che ha profonde radici nel Bauhaus: autori come il russo Vasarely, l’americano Kenneth Noland, e l’italiano Bruno Munari. E altri. Artisti coi quali il regista aveva famigliarità.

Pop Così come conosceva bene la Pop art. Arancia Meccanica è un richiamo molto articolato, nell’arte e nel design, alle correnti del momento. Ad esempio la scultura fallica con la quale il protagonista, Alex, sevizia la donna, deriva esplicitamente da un’opera di Brancusi; le donne del Milk Bar hanno una forte impronta pop, dalle sculture bianche di George Segal alle donne-tavolo di Allen Jones. Il regista è molto attento ai riferimenti culturali: la casa dove avviene la sevizia è di una coppia di ricchi che collezionano arte: alle pareti infatti si vedono ad esempio opere di Tom Wesselman: l’opera è intitolata “Great american nude n° 8″, 1961, e anche “n° 98″, 1967, altro autore  della pop art americana, e ancora la scultura “brancusiana”, che Kubrick commissionò a una scultrice americana, Liz Jones.

Settecento L’attitudine del regista non si limita all’arte contemporanea. In Barry Lindon, come sempre Kubrick agisce a modo suo, fa sul serio, studia l’arte del settecento in profondità. La pittura inglese di quella stagione è molto importante, capace di rappresentare il reale con momenti di “espressione” che vanno ben oltre. I nomi rappresentativi sono quelli di  Gainsborough, Zoffany e Stubbs, soprattutto quello di William Hogarth, che non si limitava ad essere un “fotografo”, ma cercava di cogliere nelle posture e nelle espressioni, appunto, il significato delle vicende alle quali assisteva. Amava il teatro e certi suoi quadri richiamano quasi il movimento e i volti esprimono drammaticità, oppure ilarità. Un artista già da satira. Molto amato, già allora, da tutte le fasce. E… da Kubrick. Una delle opere più importanti di Hogarth è “Matrimonio alla moda”, del 1743. Il regista non si preoccupa certamente di nascondere l’ispirazione. Il servizio che con questo autore il cinema rende all’arte, sorella maggiore, è importante e benemerito. Le due discipline convivono magnificamente. Certo non è semplice, ci vuole Kubrick.   

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