Londra, 1939. Herr Wolf è un investigatore privato, tedesco. Viene assoldato per ritrovare una ragazza scomparsa. La ragazza è ebrea. Wolf accetta il caso perché ha un bisogno disperato di soldi, ma Wolf odia gli ebrei. È colpa degli ebrei, infatti, se nel 1933 ha dovuto lasciare la Germania; è colpa degli ebrei se i comunisti hanno preso il potere a Berlino e da qui in quasi tutta l’Europa; è colpa degli ebrei se il partito nazista, che avrebbe dato ordine e disciplina all’Europa, è stato sconfitto e distrutto; è colpa degli ebrei se Wolf e molti dei suoi vecchi compagni sono finiti così, dispersi e braccati. L’indagine porterà Wolf a ripercorrere il suo passato, precipitare nelle sue nevrosi, e condurrà invece il lettore in un gioco di continui spiazzamenti.
Wolf, dello scrittore israeliano Lavie Tidhar, segna il rientro in grande stile della narrativa ucronica nel mondo snob della letteratura “da libreria”.
Non poteva essere altrimenti, visto che abbiamo a che fare con un romanzo stupendo, cupo e potentissimo. L’autore si permette il lusso di immaginare un Adolf Hitler esiliato dalla Germania che, tra i due dopoguerra, è stata elettoralmente conquistata dai comunisti, e che quindi appartiene al sempre più intraprendente blocco orientale, che fa capo all’Unione Sovietica.
Finita la sua avventura da leader del nascente (ma già morto) partito nazionalsocialista, Hitler ha adottato un suo vecchio soprannome, Wolf, e si è trasferito a Londra, dove tira a campare come investigatore privato.
Molti dei suoi ex camerata, così come tantissimi tedeschi, sono fuggiti dalla Germania comunista, trovando asilo nel Regno Unito, dove però non sono esattamente amati dagli inglesi.
Wolf non ha abbandonato l’ideologia in cui credeva, anzi, pensa proprio che sia colpa degli ebrei, se il Vecchio Continente è sulla soglia di una nuova guerra mondiale tra i popoli liberi e i filo-sovietici. Ciò nonostante, l’ex leader di un partito che in questo mondo ucronico inventato da Thidar non è sopravvissuto al 1933, non ha più speranze per il suo futuro politico, né per quello della Germania. Ciò che gli rimane è tirare a campare, svolgere una professione per la quale pensa di essere portato (l’investigazione), e incrociare alcuni suoi vecchi camerata, tutti più abili di lui a essersi riciclati come arruffoni capi-popolo dei profughi tedeschi in terra britannica (tranne Goring, passato ai comunisti poco dopo la Caduta).
Wolf è una storia ben scritta, avvincente, oscura, di un passato che non è mai esistito ma che ha un suo senso logico (o illogico, come preferito).
Il protagonista, mai citato col suo vero nome (se non nel tragico, potente finale), viene ricondotto a ciò che sarebbe stato se, per un qualunque fattore sfavorevole, non fosse riuscito a completare la sua scalata al potere: un piccolo psicopatico, non privo di intelligenza e carisma, ma consumato da un’amoralità tale da renderlo odioso ai più.
Tidhar è anche bravissimo a disseminare il romanzo di riferimenti alla cultura pop e pulp degli anni ’30, da Metropolis a Tolkien, al cinema maestoso e visionario dell’amica Leni Riefenstahl, che in questo mondo alternativo si è riciclata a Hollywood dopo il crollo della Germania post-imperiale.
In Wolf c’è anche una predominante dose di sesso “malato” e feticista, che si aggancia direttamente alle tante storie riguardanti la sessualità di Hitler. È dunque un romanzo che odora di umori corporali e di depravazione, ma senza sfruttare tutto ciò come facile mezzo per attirare i lettori più morbosi.
Un libro intenso, che non lascia indifferente.
Da leggere se amate l’ucronia, o se semplicemente vi piace sforzare l’immaginazione per riflettere sulle alternative che potevano essere ma che non sono state.
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