Di Ivan Quaroni
Di tutte le trentasei alternative, scappare è la migliore.
(Proverbio cinese)
Anna Turina è un’artista versatile, non solo perché sa spaziare tra varie discipline (come il disegno e la pittura, la scultura e l’installazione), ma soprattutto perché sa trasferire le sue esperienze, i suoi stati d’animo, insomma le urgenze del suo vissuto, in immagini efficaci, che sono, allo stesso tempo, narrative e concettuali.
Diversamente da altri artisti, preoccupati di formalizzare uno stile, una sigla, un marchio di riconoscimento distintivo e coerente, Anna Turina adatta le sue capacità tecniche (e finanche artigianali) alla costruzione di opere che rispondono esclusivamente al suo interesse (per non dire alla sua ossessione) del momento. Il suo marchio, se di marchio si può parlare, consiste nella reinvenzione, ciclo dopo ciclo, progetto dopo progetto, dello sguardo attraverso cui osserva il mondo. Intendo dire che l’artista è di quelle che sanno calibrare, ogni volta, la propria capacità inventiva, conformandola a un tema. La sua abilità consiste nel volgere le idee in forme e in manufatti, i pensieri in progetti.
In questo caso, la sua indagine riguarda la casa, che Le Corbusier definiva come una “macchina per abitare” e che è soprattutto un luogo transazionale, in cui si condensano relazioni e sentimenti ambivalenti, spesso di segno opposto. Spazio ospitale, ma anche prigione affettiva, la casa è un topos classico della letteratura e, ovviamente dell’architettura. L’una ne ha, infatti, raccontato gioie e inquietudini, l’altra ne ha reinventato l’organizzazione spaziale e le regole di funzionalità. A dispetto di quanto affermava il drammaturgo francese Henry Becque, per il quale “Non troviamo che due piaceri nella nostra casa, quello di uscire e quello di rincasare”, l’artista immagina la casa come una sorta di luogo detentivo, una prigione dolce, in qualche modo rassicurante, ma allo stesso tempo esasperante, da cui, qualche volta, vien voglia di fuggire.
La sua mostra, pensata appositamente per lo spazio rettangolare di Circoloquadro, versione architettonica di una scatola da scarpe, di quelle che da bambini si adattavano a simulare un ambiente domestico, è un’unica grande installazione, composta di sculture, ready made e disegni. Anna Turina articola la sua narrazione attraverso un’iconografia semplice, fatta di scale, finestre e simulacri di case. Ci sono sottili scale a pioli, che corrono lungo le pareti bianche, tracciando le possibili vie di fuga, ma anche piccole case con tetti spioventi, che formano un campionario abitativo, che è anche, forse, un cumulo di memorie e di detriti emotivi.
C’è una finestra, un telaio evidentemente recuperato in qualche scantinato o magazzino, che è l’emblema dell’evasione, simbolo di un altrove tanto temuto, quanto agognato. E ci sono, poi, quei disegni, quasi infantili, fiabeschi, in cui il sé bambino dell’artista elenca tutti i possibili fallimenti di un tentativo di fuga, le cadute rocambolesche, gli sbalzi improvvisi, i capitomboli, gli inevitabili urti cui si va incontro, quando l’impresa è maldestra o mal progettata. E sono questi disegni niente più che la raffigurazione d’immagini mille volte proiettate nello schermo del subconscio, a formare una trama impenetrabile di paure, di timori che preludono al grande salto. Perché, si sa, ogni grande fuga è una scommessa dall’esito incerto e ogni via d’uscita stretta e impervia, come la piccola finestrella di Circoloquadro.
Quel che Anna Turina non dice è che la casa è un’espressione figurata dell’amore, in particolare di quello coniugale e familiare, così distante dai canoni del sentimento romantico e sovente caratterizzato da risvolti non sempre edificanti. La sua è, infatti, una narrazione sentimentale, una specie di love story dal finale aperto e tremendamente dubbio, in cui l’amore, così come lo conosciamo, diventa il campo di un conflitto esistenziale, diciamo pure di una quotidiana battaglia. D’altronde, perfino Napoleone, uno stratega in fatto di guerra, affermava che “la sola vittoria contro l’amore è la fuga”.
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