Il tatuaggio è un’arte antica. Scrivo arte perché per molti lo è, soprattutto attraverso l’evoluzione negli anni (le prime tracce risalgono addirittura a più di 3000 anni avanti Cristo), ma il tatuaggio è anche un forte timbro di identità, umana o culturale, utilizzata da quando esiste l’uomo, che da sempre ha avuto la necessità, o il desiderio, di dipingersi la pelle, di imprimersi dei segni riconoscibili, per segnalare l’appartenenza a una determinata cultura, etnia, stirpe, corrente di pensiero. È stato, ed è tuttora anche una forte moda. Il tatuaggio è un timbro riconoscibile che già indica qualcosa all’esterno, alla persona che hai di fronte.
E il cinema non poteva non toccare l’argomento. E lo fa da sempre. In Educazione Siberiana, l’ultima pellicola di Gabriele Salvatores, il tatuaggio ha un ruolo fondamentale, che viene spiegato dall’autore del romanzo, Nikolai Lilin, che a Milano è titolare del Kolima Contemporary Culture, un laboratorio di disegno e tatuaggio tradizionale siberiano. Lilin afferma che “uno degli elementi più importanti dell’iconografia della mia tradizione è il rapporto tra i simboli all’interno dell’immagine. Ogni simbolo ha la sua posizione esatta e assume un determinato significato accorpandosi con gli altri simboli. La chiave di lettura dei simboli”.
In Educazione Siberiana il tatuaggio infatti ha un valore tradizionale molto forte, rappresenta un segno indelebile e distintivo di una razza, e dunque, di conseguenza, di determinati valori. Valori insegnati dal capo di famiglia, nonno Kuzja (John Malkovich). Indicativa è una sequenza in cui il nipote Kolyma (Arnas Fedaravicius), protagonista del film, “legge” il corpo di un uomo appena ammazzato, attraverso i suoi disegni e tatuaggi, ognuno con un significato preciso, ognuno realizzato per una ragione … come una mappatura di una vita, elaborata su un corpo nudo. Esteticamente il tattoo richiama.
E il cinema, che è fatto di immagini, ne è molto attratto. Basti pensare a un film come l’Atalante (1934), di Jean Vigo. Il regista, per illustrare il personaggio di papà Jules, interpretato da Michel Simon, vecchio e un po’ matto marinaio, gli fa mostrare il tatuaggio con una donnina nuda sul braccio: il tipico tattoo da marinaio, molto old style, molto reale. I tattoo infatti hanno diversi stili illustrativi, avendo, come detto, una storia antica alle spalle.
A Milano per esempio, ci sono luoghi storici come Fercioni, come the Saint Mariner di Pietro Sedda, o più giovani come Isola Ink di Tartarotti (per citare pochissimi nomi all’interno di un ampio e articolato panorama che si manifesta attraverso grandi disegnatori, festival, rassegne, stili di vita …) e ognuno rappresenta un certo tipo di cultura e di target, attraverso appunti stili diversi, dall’old school, più essenziale, ai disegni più elaborati. Il tattoo è anche messaggio, un esempio, stridente, si può vedere nella saga Millennium dello scrittore Stieg Larsson, dove, in Uomini che odiano le donne, la protagonista incide sulla pelle all’uomo che l’ha violentata la frase “Sono un porco sadico e stupratore”.
Tattoo come messaggio, anche non così esplicito: basti un personaggio caratterizzato come “il cattivo”, o il border line, ecco che il corpo è spesso identificato con i disegni: da un De Niro in Cape Fear (1991), a Edward Norton in American History X (1998), con una svastica tatuata sul petto, o ancora Brad Pitt in Snatch (2000), o Angelina Jolie in Wanted (2008), (noti i suoi tattoo anche nella vita reale, di cui uno sviluppato lungo il braccio con il nome del suo ex marito Billy Bob Thornton), o ancora la versione violenta di Russell Crowe in Skinheads Romper Stomper (1992), un affascinante Harvey Keitel in Lezioni di piano (1993) o un “classico” tatuato Vin Diesel in XXX (2002), o ancora, per citare un film italiano, Sean Penn ex rock star trasandata raccontata da Sorrentino in This must be the place (2011) …
Ma si possono fare altri salti temporali, più classici, basti pensare solo al titolo in cui Anna Magnani vinse il primo Oscar, La rosa tatuata (1955), o ancora Il marchio di sangue (1951), dove Alan Ladd, per fingersi un’altra persona, si tatua un simbolo preciso. Il tatuaggio come spunto anche per la grande letteratura come nel romanzo I ragazzi di Charleston di Pat Conroy (l’autore de Il principe delle maree) dove il tattoo regna sovrano tra i protagonisti o anche nell’arte, come ad esempio i corpi delle donne iraniane di Shrin Neshat, tatuate con l’hennè per rappresentare una sfida e un riparo per la loro condizione femminile. Tracce di una storia, azioni di sfogo, patti d’amore, simboli riconoscibili e di appartenenza, disegni tribali, segni indelebili che sempre hanno un significato, davvero come una mappa sul corpo. (Mymovies, 26 marzo 2013)