Ho visto questo film, Prisoners, perché sono stato evocato. Sapete quante volte ho sentito o letto “hitchcockiano”. E’ un aggettivo, un must che ha una sua precisa ispirazione ed è inutile che ne spighi le ragioni. Dico che questo film, allargando il concetto “hitchcockiano, qualcosa presenta. E sempre facendo le debite differenze – e ce ne sono – aggiungo che lo spettro è abbastanza largo. Parlo di location, di tensione, di paura, soprattutto di pazzia. Ed ecco il primo richiamo: Norman Bates del mio Psyco, lo psicopatico più famoso del cinema. Sono conscio che allora creai un modello che divenne non solo un sequel infinito, ma un carattere imprescindibile. Chiunque si fosse applicato a un personaggio simile, doveva vedersela con quel modello travolgente e perfetto. E “costruire” Norman mi costò molto, un impegno assiduo e uno studio profondo. Sostenuto da quel magnifico attore, ma soprattutto magnifico latente pazzo che era Tony Perkins. Norman, da solo – con la mamma che era sempre Norman- riempiva Psyco. Prisoners riesce (tenta di riuscire) a contenere ben cinque “Norman”. Il plot gira intorno al rapimento di due bambine. Sono coinvolti: un adolescente con l’intelligenza di un decenne -rapito a sua volta dal padre di una delle bambine, e torturato-, un paranoico ex rapito con eredità psichiche pesanti, un vecchio psicopatico che nasconde in cantina un morto mummificato (cosa ricorda?), e anche il protagonista che dovrebbe essere l’”eroe”, si porta dietro una patologia di mistica e di violenza non da poco. E poi la l’anziana che tutto governerebbe, la più “matta” di tutti.
Dunque patologie, deformazioni, reconditi labirintici: e “labirinto” è la parola, e l’oggetto, chiave. Roba davvero non semplice da gestire, moltiplicata per cinque. Un’equazione con cinque incognite. Con un dato certo, uno solo, il poliziotto. Che non può che avanzare a fatica. E a fatica, l’autore, con qualche forzatura visibile, riesce a trovare l’uscita dal labirinto. Ho apprezzato gli scenari, una Pennsylvania autunnale, con case basse e grigie: ma tutto è grigio, il cielo i campi, i giardini, gli interni e l’asfalto, con la pioggia e il nevischio sempre a cadere. Ricordo qualcosa di simile nel mio Ombra del dubbio, un film che amo molto, con un ambiente in una piccola città, Santa Rosa, triste teatro di una storia angosciante e grigia. La mia vicenda si fermava lì, adesso leggo di contrappasso e metafora, che traduco come un vezzo, sì mi piace chiamarlo così, della comunicazione di questa epoca, di estendere la storie individuali al contesto generale.
Una piccola comunità di personaggi, con le loro patologie, anche gravi, anche estreme, deve sempre rappresentare un Paese. E il quadro che ne uscirebbe dell’America è triste, peggio è tragico. Si comincia da tutto quel grigio quasi nero. Il sistema americano non sarebbe in grado di difendere i suoi figli, e ricorrerebbe alla tortura, seppure per una buona causa … sappiamo. E poi la mistica stravolta. Il film comincia con un padrenostro, il protagonista ritiene di avere la complicità del trascendente per la sua azione di giustizia.
Lo dico con sincerità … del resto qui dove mi trovo non si può che essere sinceri… non capisco questa critica violenta all’America, da parte di un “americano del nord” com’è il canadese Denis Villeneuve, il regista. A maggior ragione da parte di certi americani come quel Penn e quello Stone, che sembrano davvero odiare la loro casa. Ai miei tempi dell’America parlavo bene. Del resto ero diventato Hitchcock soprattutto grazie all’America. In molti film attaccai il nazismo, ma non era difficile, in altri, successivi, che possiamo considerare film “politici”, come Intrigo internazionale, Il sipario strappato, Topaz, gli americani erano i buoni, i cattivi erano i russi. Ricordo che anche allora, un mio caro amico, anche lui inglese, e anche lui in debito con l’America, Chaplin, non era tenero col Paese che ci ospitava. E glielo dissi. Mi rispose “ma non sono stato capito, neppure tu Alfred, mi hai capito”. Certo, adesso tutto è cambiato.
Ma sto divagando. Concludo dicendo che qualcosa di mio in Prisoners c’è: Hitchcockiana è certo la corsa in macchina del poliziotto ferito che corre contro il tempo per portare la bimba al pronto soccorso. Ma il resto sono evoluzioni un po’ troppo articolate e sfuggenti. Una materia che costringe il racconto ad essere troppo lungo. Troppa carne al fuoco, ci vuole molto tempo. Un saluto e al prossimo … hitchcockiano. (da Mymovies.it, Onda fuori Onda, 17 novembre 2013)
di Alfred Hitchcock