la GRANDE BELLEZZA //// Il Trash, il Kitsch, il bello e il cattivo ….

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 Paolo Sorrentino è già nella storia del cinema italiano. Questo è un dato di fatto. E’ un autore accreditato e riconoscibile, ha un timbro personale e univoco, racconta per immagini preziose, cercando, e trovando il gradimento del pubblico, e cosa desueta, anche della critica. La grande bellezza è un prodotto esteticamente rigoroso,  ricco di spunti, di personaggi che cercano di non essere banali, di volti che non si dimenticano, di colore, di orpelli, di musica, di paesaggi e luci accecanti, di una Roma da sogno (o da incubo) e di frasi d’impatto: soprattutto quelle pronunciate fuori campo da Jep Gambardella, il protagonista, associando, con ironia, Ammaniti a Proust. Ma dietro a ogni singolo spunto ( e sono tanti) cosa rimane ? Rimane il volto ( o non volto, come un’opera della body artista Orlan, che da cinquant’anni lavora sulla chirurgia plastica) di una Sabrina Ferilli intensa, diversa e umana. Rimangono scene romane glitterate, come una fotografia di La Chapelle, scintillante ma dalla poca sostanza, rimane l’enorme, felliniana Serena Grandi, caricatura di se stessa, sfatta, che balla, si fa fare il botulino e non si stacca dalla cocaina, quella “buona” servita ai party dei ricchi romani che popolano strade, uffici e party. E Jep che osserva attento, ironico, ma sofferente, come un testimone che scruta un circo fatto di roba schifosa e inutile, dove quel che rimane non è altro che la parodia di un mondo che tutti conosciamo, ma che nessuno, neppure lo scrittore, cerca di esorcizzare. E tutto continua a “ricominciare daccapo”. Il cerchio si chiude e si riapre continuamente senza che niente sia mai risolto.

E  poi i cliché: la borghesia disperatamente uguale a se stessa ma senza aver risolto il suo contesto; la chiesa, quella “cattiva” sempre presente; la falsa educazione; il falso bello; la nobiltà decaduta; la chirurgia plastica; le belle case; la magia un po’ esausta di Roma e dei suoi capolavori classici; l’umanità tradita; l’umanità sporca; l’irrimediabile decadenza fisica; la malattia. E poi gli spunti sbeffeggiatori nei confronti dell’arte contemporanea, a rappresentare un ambito considerato alto che poi non lo è. Ecco che un gruppo, ristretto, di persone sta seduto in un parco fuori dal Colosseo a vedere ed applaudire un’ “artista” che corre sbattendosi contro una colonna di pietra, per poi gridare “io non vi amo !”. Applausi. E ancora la delusione di questa stessa body artist che, parlando in terza persona, non viene presa sul serio da Jep che la deve intervistare a la smonta con poche, acute osservazioni. E poi la bambina, figlia di ricchi imprenditori, che crea una sofferta performance gettando in maniera pollockiana, colori su un muro, mischiando lacrime e vernice (“Piange ?” Macchè piange “quella bambina è miliardaria”). La stessa ironia di una Julienne Moore artista miliardaria che nel grande Lebowsky si fa legare dall’alto per fare dripping su enormi tele. Ma c’è anche uno spunto di sostanza: l’artista che da quando è nato è stato fotografato dal padre poi da se stesso. E le migliaia di immagini occupano le pareti intorno a un antico teatro romano. Questa volta Jep capisce, e si commuove. Di Servillo non si dice mai abbastanza, è un fuoriclasse.

Mi piace omologarlo a Maurizio Cattelan ritenuto (nel mondo, dal Guggenheim per esempio) il più importante artista italiano. Entrambi rappresentano un’”arte” mutevole, in costante bilico tra falso e reale, tragicomico e surreale, come il suo volto plasmabile dell’attore che muta a seconda del pensiero, che forse riprenderà a scrivere, ma mai tradendo  quel circo grottesco e patinato.

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