di Pino Farinotti (Onda&FuoriOnda mymovies.it, 4 maggio 2014) | Il “Kammerspiel” è una forma di spettacolo, di teatro e anche di cinema: significa recitazione da camera. Vale quando l’azione si svolge in un unico ambiente chiuso. Il termine è nato in Germania negli anni venti, deriva dal sostantivo kammer e dal verbo spielen.
Per “Locke”, il film di Steven Knight, mi concedo un neologismo: wagenspiel: recitazione in macchina. Il film per ora è un unicum ma può essere che nel tempo abbia qualche seguace. Sì, perché il “master” è un ottimo modello. Tutti lo hanno accolto con curiosità e attenzione. Molti dei recensori hanno attribuito il quattro stelle che spesso è il voto più alto. Ivan Locke è un ingegnere affermato, a capo di un lavoro enorme, ballano molti milioni di sterline. Tutto va organizzato, ma Ivan si sottrae, gestirà tutto per telefono dalla macchina. Sta viaggiando da Birmingham verso Londra, dove una donna, Bethan, “non bella, non giovane” sta partorendo un figlio suo, concepito casualmente grazie alla circostanza e a molti drink. Non c’è amore, non c’è storia, ma Locke vuole essere presente, perché è il “responsabile”. Ecco, responsabilità è la parola chiave. Per telefono, con metodo, persino con crudeltà verso se stesso, Ivan distrugge la propria vita. Racconta tutto alla moglie, senza fare sconti nei particolari, cerca di spiegare al suo capo, al suo più fidato collaboratore. Le telefonate si susseguono come un metronomo tarato su un ritmo alto, funzionale, cinematograficamente perfetto. Più volte seguendo la storia – che certo, si fa seguire, in tempo reale- ho pensato: “ ma che imbecille, puoi confessare, pentirti, flagellarti, ma lo puoi fare senza uccidere tutta la tua vita, e rimanendo comunque onesto.” Per reggere 85 minuti in quel solo ambiente, occorrono invenzioni, dinamiche.
L’autostrada scorre di notte, il guidatore deve gestire, pensare, soffrire, risolvere, mentre piove, le luci ti vengono incontro, abbaglianti, e poi deve arrivare in tempo, e ci sono rallentamenti, le macchine della polizia ti affiancano. E Knight si muove da maestro. E’ uno sceneggiatore affermato, ha lavorato con Cronemberg e Frears. E infatti tutto funziona, il ritmo, il coinvolgimento, i vari thriller incrociati. Alla fine Ivan ha perso tutta la sua vita, arriva la telefonata di Betham, il bambino è nato. Da critico confermo che il film non fa una grinza. La qualità delle battute è alta, e regge bene l’evoluzione, l’escalation emotiva. Il regista gestisce la fase tecnica, necessaria alla verosimiglianza, così veniamo a sapere tutto di calcestruzzo, oltre che di animo umano. Tom Hardy, in un ruolo per lui improprio, tiene benissimo. Dunque come specialista attribuisco al film le quattro stelle. Ma come scrittore colgo la mancanza, endemica, della scrittura da cinema quando deve affrontare un tema così vitale, definitivo, diciamo così. Ivan agisce in nome di un principio assoluto. Ma Knight eccede nella misura. Come cineasta è specialista di licenze e di effetti speciali e così si è innamorato degli effetti speciali sentimentali. Sorpassando la sostanza e la verità: non basta un errore, seppure importante, a seppellire tutto il resto della tua vita. Certo, fa colpo. Ti fa il film, appunto.
Un romanziere avrebbe corretto l’assoluto, l’astrazione, e avrebbe trovato una soluzione magari meno spettacolare e radicale. Ho spesso scritto che la sceneggiatura è, quasi per definizione, la sorella minore del romanzo, che il cinema è comunque sempre subordinato alla letteratura. Ma proprio in questa differenza di qualità sta la fortuna del cinema. Che tutto può accogliere. Lo spettacolo, gli effetti speciali comandano. Non serve la verità. Knight, certo dotato e intelligente, ha inteso inserire un elemento che giustificasse quella scelta radicale, “speciale”. E così Ivan, fra una telefonata e l’altra, si rivolge a suo padre, morto, parlando allo specchietto retrovisore. Gli parla insultandolo, con volgarità, violenza, odio. Certo l’uomo era un genitore orrendo, prepotente, assente. E dunque questa deformazione, questa attitudine all’autodistruzione, al non compromesso suicida, deriverebbe dalla solita ragione lontana, la solita coscienza recondita. L’inserto è superfluo, stride. Knight poteva evitarlo. Ma da sceneggiatore non ha resistito al richiamo del Freud fai da te. Per me e per altri il riferimento al Cocteau che ha scritto la telefonata della Magnani nella “Voce umana” di Rossellini, è quasi naturale. Un solo personaggio, un solo ambiente. Ma firmato da Cocteau: scrittore.